30 aprile 2007

fotografia La fotografia come altro reale artificiale – Parte I

 
Cosa succede, a livello psicologico e inconscio, durante l’atto del fotografare? Cosa spinge milioni di persone al mondo a catturare momenti del flusso della vita? Appunti per una psicologia del fotografare…

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Scattare fotografie, osservarle, esserne oggetto. Sono azioni che hanno in se stesse una forte ed innegabile connotazione psicologica. Ad esempio -in una dimensione amatoriale- scattare, sviluppare e conservare le fotografie in fondo ad un cassetto o in un album deputato, significa, per l’individuo, avere cura del proprio passato, ma anche ricevere la conferma del proprio esserci. La fotografia difatti agisce come attivante del processo mnemonico e come assicurativo circa l’esistenza di ciò che è presente. Nelle serie fotografiche familiari è possibile riconoscere il trascorrere delle stagioni, le nascite, i matrimoni, le somiglianze comportamentali e fisionomiche, i rapporti e le relazioni tra i membri ritratti. Questo perché gli album fotografici costituiscono il filo diretto con il nostro passato e la registrazione sicura del nostro presente.
Ad un livello di ricerca autoriale potrebbero benissimo essere considerati quali album fotografici i progetti concettuali Specchio dei tedeschi e Volti del nostro tempo di August Sander -confluiti nel volume postumo (edito nel 1980, sedici anni dopo la morte del fotografo) Uomini del XX secolo– con i quali l’autore narra, accostando ritratti dei più vari personaggi dell’epoca, la storia culturale, economica e politica della società europea. Lo stesso si potrebbe dire dei precedenti racconti per immagini di Lewis W. Hine, che ci dicono molto -anch’essi come fossero un grande, universale, album familiare- sulla società, sulle condizioni degli operai, dei minori, delle famiglie del primo Novecento. E più genericamente si potrebbe affermare che ogni immagine fotografica, ogni immagine tecnica, assorbendo tutta la storia, tutte le immagini tradizionali, costituisce una memoria sociale che ruota all’infinito (Vilém Flusser).
Quindi, constata la diffusione e l’importanza conseguente del fotografare e facendo un passo indietro, cercando di arrivare alla sua origine, ai suoi attivanti, viene prima di tutto da chiedersi che cosa avvenga nella mente di una persona che decida di servirsi del mezzo fotografico. Che cosa spinga, ed in modo così diffuso e trasversale, a fotografare e a conservare l’immagine che ne risulta.
Le teorie sono naturalmente molteplici anche se non così divergenti. Per la psicoanalisi -che più delle altre discipline ha analizzato la questione ed i cui risultati in questa sede ci preme riportare- la macchina fotografica sar ebbe l’estensione fisica dell’apparato psichico o meglio di uno dei suoi organi fondamentali: la vista. La macchina fotografica avrebbe infatti il potere di collegare l’operatore con il mondo esterno attraverso un processo di introiezione che porterebbe a fissare un oggetto ed il rapporto con quell’oggetto dapprima nel mirino, in seguito nello scatto e poi (dopo lo sviluppo) in un foglio di carta, in un supporto tangibile con il quale poter avere un qualche rapporto fisico. In merito è da notare come per il terapeuta sia fondamentale interpretare, ai fini di una formulazione fototerapica efficace, l’utilizzo ed il rapporto che un paziente ha e mostra con quella foto piuttosto che con un’altra. Difatti mostrare, scegliere, presentare, raccontare una determinata foto significa un po’ scegliere –e quindi rivelare- il proprio modo desiderato di essere visti dagli altri, scegliere il proprio aspetto preferito, la propria identità.
Per Emilio Servadio, il rapporto con il fotografare e con l’oggetto fotografico rivelerebbe aspetti particolari di nevrosi. In alcuni nevrotici da lui analizzati evidenzierebbe “l’insicurezza nei rapporti oggettuali, per cui l’oggetto deve essere fotografato una quantità innumerevole di volte a brevissimi intervalli [la fantasia soggiacente è (…) che esso possa sfuggire e che occorra perciò (…) catturarlo]; in altri un’aggressività inconscia di origine sadica verso l’oggetto, che spesso viene colto in atteggiamenti impropri o ripugnanti; in altri ancora una predilezione per la fotografia di corpi nudi a compensazione di notevoli difficoltà e inibizioni nella vita sessuale”.
Tutti questi casi, tutte queste fantasie, questi desideri, sarebbero riscontrabili anche al di fuori della patologia, all’interno di individui normodotati psichicamente. Infatti -seguendo l’indagine psicoanalitica- il processo di incorporazione e di introiezione delle cose sarebbe per lo più alla base d’ogni fotografare, mantenendo sempre qualcosa della voracità oculare che si manifesta in ogni visione infantile sia pure nei termini freudiani –affatto allarmanti- di una psicopatologia del quotidiano. Una voracità che al contrario –se non adeguatamente sublimizzata com’è nel caso dell’artista- darebbe invece luogo a quel fenomeno chiamato scopofilia o voyeurisme. Nel guardare vorace del voyeur sarebbero presenti –anche, sia pure come detto in grado minore, in ogni fotografare non patologico- impulsi aggressivi e libidici di natura orale diretti a delle fantasie ossessive di incorporazione e di conquista dell’oggetto.

Questa aggressività sarebbe riscontrabile persino nello strumento in se, persino nella sua meccanica formale fatta di design aggressivi, armati. La considerazione della macchina fotografica come strumento per “cacciare” immagini (in inglese fotografare è appunto shooting, sparare), come prolungamento ed esternizzazione di un Io rapace, è difatti presente, per lo meno a livello inconscio, in tutti gli operatori e con evidenza in molti individui poco civilizzati che spesso effettivamente rifiutano di farsi fotografare temendo che la propria personalità possa essere carpita. Pure anche molte persone civili reagiscono in maniera irrazionale e imbarazzata di fronte alla macchina fotografica. Basti pensare a ciò che Nadar riferisce nelle sue memorie a proposito del rapporto che Balzac aveva con la fotografia. Un rapporto basato sul terrore di farsi fotografare nella convinzione che ogni operazione dagherriana avrebbe (…) agguantato, staccato e consumato una delle membrane del corpo sul quale puntava. E un cambiamento delle apparenze avrebbe significato un cambiamento della persona in quanto Balzac si rifiutava di postulare una qualunque persona reale dietro tali apparenze esattamente come –in maniera istintiva ed irrazionale- pensava ogni popolazione primitiva ed esattamente come –nichilisticamente- pensiamo noi oggi. L’immagine tecnica onnipresente ha difatti ristrutturato la realtà trasformandola in apparenza. L’uomo contemporaneo smemorato, dimentica di aver creato lui quelle immagini e vi si lascia guidare fino a vivere in loro funzione.

Redazione Exibart

[exibart]

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