18 novembre 2010

design_interviste Fratelli Campana

 
Improvvisazione, semplicità, rischio. E il Brasile. È quanto racconta Estu'dio Campana, prima esposizione a Roma dei fratelli del design sudamericano. Un’occasione per confrontarsi con l’esuberanza del loro approccio al progetto...

di

Surrealismo, ready made, alta artigianalità: tutti
elementi chiamati in causa per guardare ai vostri lavori. L’arte ha un ruolo
privilegiato tra le fonti della vostra ispirazione?

Humberto Campana: L’arte
è sempre stata importante, perché quando ho iniziato a fare il designer non mi
consideravo un progettista bensì uno scultore. Dell’arte amavo la lavorazione
dei materiali, il lato scultoreo del metallo, la manualità delle saldature. Tra
le nostre opere d’esordio c’è la collezione Desconfortàveis
[Sconfortevoli], una serie di sedie
realizzate per rendere scomodo e provocatorio il nostro rapporto con esse. Marco Romanelli evidenziò nel nostro
lavoro una dimensione legata al design piuttosto che all’arte, consigliandoci
di far dialogare la nostra poesia e la nostra forma artigianale con l’industria
del mobile.

I pezzi esposti alla Galleria O sono tutti il
risultato di una ricerca sviluppata in autonomia all’interno del vostro studio.
In cosa differiscono dalla vostra produzione su committenza?

Fernando Campana:
Entrambe le tipologie nascono come prototipi, dopo un vero e proprio periodo di
gestazione nello studio. Noi lavoriamo sempre a un prototipo tridimensionale,
quindi tra le nostre proposte scegliamo cosa presentare alle aziende. Alcuni
sono compatibili con la produzione industriale, altri no, e con questi ultimi
realizziamo pezzi in edizione limitata. È qualcosa che facciamo per nostro
piacere personale, ma è anche un modo per coinvolgere le gallerie e per
rivolgersi a questa nicchia di mercato.

H.: Per noi
è anche importante lavorare in Brasile, avere uno studio dove coinvolgere
artigiani locali, recuperandone tecniche in via di estinzione e lavorare con
cooperative che operano nelle ex favelas. Credo sia una forma più politicamente
corretta di fare design, un’integrazione e non un’esclusione in grado di
generare riscatto sociale, autostima, speranza.

Design limited edition: una moda, un business o un punto di forza per
la disciplina progettuale?

H.: È un
processo di integrazione, di cambiamento. Oggi il mondo è cambiato, c’è più
interesse nel design-arte che propriamente nell’arte: il design si capisce più
facilmente, è istintivo, mentre l’arte spesso deve essere spiegata.

F.: I
confini tra le discipline si stanno sfaldando, come fra arte e design, arte e
cinema, cinema e moda, cibo e design. Ognuno deve sentirsi libero di fare
quello di cui si sente capace senza però approfittare delle mode. Varcare un
confine rappresenta sempre un pericolo, che nel nostro caso le aziende si
prendono sempre con noi: non solo Edra, ma ad esempio anche Melissa, con cui
abbiamo fatto delle scarpe di plastica.

Il vostro lavoro è stato spesso analizzato sotto le lenti della commistione
tra culture. Come per The Barbarians,
l’ultima collezione per Edra presentata a Milano lo scorso aprile. Chi sono,
oggi, i barbari nel design e quale potere costituito debbono abbattere?

H.: I
barbari contemporanei sono senz’altro gli europei, perché attraversano un’epoca
di revisione totale. La crisi ha cambiato la mentalità dei consumatori,
dell’intellettuale, dei produttori, e noi guardiamo con molto interesse alle
nuove attitudini che questo processo sta generando. Un esempio è Martino
Gamper, lui è un vero barbaro che porta avanti una rivoluzione del pensiero,
lavorando con gli scarti e dimostrando che per fare non c’è bisogno di tanto.
In fondo si tratta di un design “emergenziale”, come quello della favela, un
modo di ispirarsi non alla povertà ma alle idee semplici. Una qualità che
ritroviamo oggi anche in Brasile, con la sua improvvisazione, il sapersi
muovere verso nuove direzioni, anche grazie al fatto che abbiamo acquisito
l’eleganza per farlo.

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giulia zappa

la rubrica design è
diretta da valia barriello

[exibart]

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