22 gennaio 2011

NON SOLO GUGGENHEIM E LOUVRE

 
Siamo andati a Doha, cuore del Qatar, per l’inaugurazione del Mathaf. Sì perché lì c’è una collezione che data quasi due secoli e che non necessita di operazioni di franchising. E ora ha il suo museo. L’occasione per un breve excursus nell’Emirato. Con un rammarico...

di

Lo scorso 14
dicembre si è inaugurato l’Arab Museum of Modern Art di Doha, in Qatar, anche
noto come Mathaf, che in arabo significa appunto ‘museo’. Il museo per
antonomasia, dunque, come risulta in termini autoreferenziali.

La
titolatura è senz’altro illuminante di una certa prospettiva e visione alla
base del progetto. Inizialmente una collezione privata raccolta da Sheikh
Hassan Bin Mohammed Bin Ali Al Thani a partire dalla fine degli anni ‘80, il
museo può oggi contare su un patrimonio di oltre 6.000 pezzi in gran parte
rappresentativi della produzione artistica moderna (con opere che risalgono al
1840) e, seppur in minor misura, contemporanea dei Paesi arabi, includendo
artisti di ogni generazione provenienti da Medio Oriente, Nord Africa e Paesi
del Golfo. L’orgoglio del taglio è nel nome del museo, a caratterizzazione
araba per definizione. In un’epoca segnata dalla minimizzazione
auto-identitaria per lo più in nome di ragioni politiche, sembra una iniziativa
quanto meno degna di nota.

Il progetto
collezionistico nasce in un momento francamente precoce ed è senz’altro
connotato da encomiabile lungimiranza, quanto meno rispetto al contesto al
quale ci riferiamo. In effetti, il mondo arabo è ancora segnato da una sostanziale
diffidenza nei confronti della produzione artistica d’avanguardia a
connotazione locale e propende, laddove presente, per una produzione classica,
quasi esclusivamente pittorica e visualmente figurativa. Sheikh Hassan ha avuto
il merito di oltrepassare questa linea di demarcazione stilistica per
avventurarsi entro un ambito ancora poco o nulla percorso.

Younès Rahmoun - Zahra-Zoujaj - 2010 - installazione multimediale - photo Mohammed Kazem
La decisione
di tradurre questa pregevole collezione – pregevole per il suo volume ma ancor
più per la rappresentatività delle tendenze stilistiche che, nonostante il
vigente conservatorismo culturale e religioso, si sono pur susseguite nel mondo
arabo – in un progetto museale è viceversa recente. L’archiviazione secondo
parametri museali istituzionali non data a più di un paio d’anni e sembra in
parte almeno peccare di una certa frettolosità, con numerose imperfezioni
catturabili a occhio. Le malelingue dicono che la responsabilità sia in parte
della giovanissima équipe chiamata a occuparsi della gestione del museo.
Indubbiamente, l’intera operazione sembra caratterizzata da una notevole dose
di flessibilità, di leggerezza e persino di “improvvisazione” nella più
positiva delle accezioni, proponendosi come una sfida ad altre mastodontiche
iniziative promosse in Medio Oriente, in cui il peso istituzionale e rappresentanza
spesso soverchia il volume artistico del progetto.

Quel che
sembra si possa arguire, vista l’urgenza autoimpoastasi per l’inaugurazione del
museo, è che vi fosse una precisa volontà di rendere accessibile e pubblica la
collezione prima che si aprissero le porte dei mirabolanti progetti di Abu
Dhabi, Louvre e Guggenheim in testa. E, potremmo dire, a buon diritto. A buon
diritto per ragioni puramente cronologiche, visto che la collezione qatariota
risale a un momento francamente anteriore rispetto alle iniziative promosse dai vicini Emirati, dove peraltro
la spinta collezionistica è non solo recentissima e tuttora in corso, ma non è
stata presa direttamente in carico da istituzioni locali bensì affidata a
collaudate istituzioni straniere, una sorta di “franchising” culturale che
rischia di omogeneizzare quello che di fatto si riduce a un prodotto come un
altro, privo com’è di ogni forma di individualizzazione progettuale.

Hassan Sharif - Cow’s Belly - 2010 - materiali vari - photo Mohammed Kazem
Ad
affiancare l’apertura del museo, ricavato come struttura temporanea nei locali
di una preesistente scuola nell’area della Education City e impostato, nella
sua esposizione inaugurale Sajjil. A
century of modern art
, secondo un antiquato criterio tematico (la famiglia,
la natura, l’individuo, la città…), si mettono in bella evidenza due mostre
di grande rilievo e, nel confronto con la collezione permanente, persino su
questa prevalenti. Ospitate in una pala-struttura in prossimità del Museo di
Arte Islamica (in centro città e quindi molto più accessibile rispetto al
Mathaf, che si trova in una zona periferica di Doha), le due mostre sembrano
volersi strutturare in logica sequenza: Interventions.
A dialogue between the modern and the contemporary
, curata da Nada Shabout,
è incentrata sulla produzione di cinque artisti “storici” del mondo arabo
seppur praticamente sconosciuti in occidente (Dia
Azzawi,
Farid Belkahia, Ahmed Nawar, Ibrahim el-Salahi e Hassan
Sharif), presentando lavori già
appartenenti alla collezione del museo ma anche una serie di nuove opere
commissionate ad hoc e recentemente
acquisite. Come si diceva, si tratta di una sorta di anello di congiunzione fra
la ricca collezione di artisti moderni di cui dispone il Mama (tutti gli
artisti onorati da Interventions sono
infatti presenti con numerosi lavori nella collezione permanente) e i 23
giovani artisti chiamati da Sam Bardaouil a illustrare le tendenze
contemporanee del mondo arabo.

Told, Untold, Retold. 23 Stories of journeys
through time and place
propone una vasta, se non
ovviamente esaustiva, panoramica sulla produzione di artisti nati e legati alla
cultura araba seppure per lo più oggi operanti in realtà occidentali (fra gli
altri, Ghada
Amer e Youssef Nabil, entrambi
egiziani di adozione statunitense; Walid Raad, nato in
Libano ma attivo a New York; Steve Sabella, originario di Gerusalemme, vive
a Londra e Berlino; Kader Attia, che lavora ad Algeri e
Berlino). Un particolare tutt’altro che irrilevante, se si considera la
generalizzata tendenza a riconoscersi in natali da cui far derivare un’identità
che risulta di fatto “annacquata” e cui ci si richiama in termini quasi
esclusivamente catalizzatori (peraltro non vale il contrario, e sembrerebbe una
specificità propria al mondo mediorientale).

Sam Bardaouil (il primo a sinistra) con gli artisti Ghada Amer, Sadik Kwaish Alfraji e Hassan Sharif - photo Mohammed Kazem
Se un
appunto si può muovere a questa mostra, peraltro veramente pregevole, portando
finalmente in una delle capitali del Golfo un’esposizione da cui traspare – e
il tema dovrà far riflettere i troppi tradizionalisti che affollano la scena
dell’arte “locale” – la commistione linguistica operante nel mondo artistico
arabo contemporaneo, questo consiste nella totale assenza di giovani artisti
nati e tuttora operanti nei paesi del Golfo. Ancora una volta la selezione
curatoriale ha privilegiato il solito entourage, proponendo lavori spesso di
alto livello ma talvolta anche un autoindulgenti. Si ha quasi la sensazione che
non si sia voluto eccedere nell’incensare gli artisti nativi del Golfo per non
esporsi a facili critiche. Ma anche l’ignorarli totalmente pare una scelta
discutibile e certo non esime da commenti.

Spiace
concludere con una nota negativa questo breve excursus. E allora rovesciamo la
medaglia. C’è arte di valore nel giovane Golfo, seppur negletta. Un invito alla
ricerca, o alla scoperta.

cristian de marchi

[exibart]

1 commento

  1. Consiglio a tutti di visitare questi siti. Ho avuto l’occasione di andare in qatar per un solo giorno, in uno scalo di un viaggio, e sono stato rapito dalla bellezza e poesia di questi luoghi. Questo museo è un motivo in più per visiare questo mondo fantastico!

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui