15 luglio 2011

LA “RICERCA” DI SRESHTA RIT PREMNATH

 
Dall’India a New York per studiare arte. L’America? Nessuno chock, a Bangalore mangiava film western e masticava bene l’inglese. Artista poliedrico, dalla fisicità filiforme, parte dalla riflessione politica muovendosi tra diversi generi espressivi e non disdegna altri settori come l’editoria. Ora è in Italia per un “soggiorno” d’artista a Civitella Ranieri Foundation. La parola a Srestha Rit Premnath…

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Raccontaci la tua storia. Come hai cominciato?

Sono nato a Bangalore in India nel 1979. Mia madre è un’ecologista, mio padre un ingegnere acustico ed io ho studiato in una scuola fondata dal filosofo J. Krishnamurti. Penso che questa particolare combinazione abbia contribuito in maniera decisiva alla mia propensione artistica. Nel 1998, dopo le scuole superiori partii per gli Stati Uniti per studiare le discipline artistiche. Mi sono trasferito a New York circa sei anni fa per completare il mio percorso di studi al Bard College e per frequentare l’Independent Study Program (ISP) al Whitney Museum.

Sei nato in India e hai vissuto negli Stati Uniti. Come ha influito sul tuo lavoro il legame a due terre così diverse?

Bangalore, dove sono cresciuto e dove vivono tuttora i miei genitori, è una città grande e cosmopolita – una delle città in più rapida crescita al mondo – e dove, andare all’estero per studiare, quando sono partito, di certo non era considerata una cosa insolita. Sono cresciuto parlando inglese e guardando gli stessi film sugli indiani, americani e altri film stranieri, quindi gli Stati Uniti non mi hanno ‘scioccato’ in alcun modo. La cosa strana era che i miei coetanei americani sapevano ben poco dell’India. Ciò che mi è rimasto davvero impresso è come il potere politico ed economico possa produrre questa distribuzione diseguale delle conoscenze.

Oltre che artista sei stato editore di un magazine di cultura, Shifter. Come hai conciliato il tuo ruolo di editore con quello di artista?

Nel 2004 ho fondato il magazine Shifter, come una piattaforma per artisti, poeti e pensatori critici di diverse discipline. Il nome del magazine si rifà al termine coniato da Roman Jakobson che descrive le parole come “Io” e “Noi” nei quali il significato cambia e dipende da chi parla tanto quanto dal messaggio espresso. Gli argomenti trattati dal magazine riguardavano /riguardano maggiormente i temi sulla soggettività e sulla formazione del soggetto. Shifter è un’estensione molto importante del mio lavoro d’artista. Il lavoro di editore ti permette di essere in continuo dialogo con artisti e manager culturali, e ciò mi ha dato la possibilità di approfondire tematiche e questioni utili alla mia pratica artistica. Ho lavorato con differenti co-editori su ogni argomento trattato fra l’undicesimo e il sedicesimo numero. Dal diciassettesimo Matthew Metzger è diventato il mio co-editore permanente. Seguire ogni aspetto operativo di un magazine, dall’editing all’impaginazione, dalla grafica al sito richiede molto tempo e un diverso tipo di concentrazione dal fare arte. E credo che i vantaggi che offre il mio lavoro superino di gran lunga i sacrifici.

Il tuo lavoro si compone di diverse forme espressive dalla fotografia, al video all’installazione, in quale ti identifichi maggiormente? Parlaci del tuo lavoro.

Il mio lavoro esamina come i paradigmi del potere producano e costituiscano il nostro rapporto con gli oggetti e gli eventi nel mondo. Per indagare i significati e le tematiche prodotte dai regimi di potere, infatti,  non posso pormi domande prima di iniziare i progetti. Di conseguenza tendo ad utilizzare per ogni progetto un mezzo espressivo differente e appropriato per la mia ricerca. Detto questo, c’è un particolare mezzo che trovo particolarmente stimolante e che ‘ritorna’ sempre: la fotografia. Mi trovo spesso combattuto tra l’apparente trasparenza e immaterialità dell’immagine fotografica e la pelle come affermazione della superficie della pittura. Cerco di usare mezzi contrastanti, e di interrompere, così, la superficie della fotografia con procedure pittoriche. Questa tendenza è del tutto evidente in recenti progetti come “Knot Zero” (Art Statements presso l’Art | 41 | Basel) e “Leo” in GallerySKE di Bangalore, un lavoro che sarà anche presentato nel mio prossimo spettacolo “Storeys End”  alla Galerie Nordenhake di Berlino .

C’è un artista a cui ti ispiri?

Mi ritrovo a tornare ancora e ancora su certi scrittori per intuizione e ispirazione. Tra di loro includo Jorge Luis Borges, Vilém Flusser and Ludwig Wittgenstein (soprattutto i lavori d’età matura). Sono sempre stato attratto dalle questioni trattate da artisti come Kosuth and Nauman negli anni ‘60 e ’70 e sono stati il tentativo per utilizzare le metodologie del concettualismo per le mie indagini socio-politiche. Recentemente mi sono avvicinato al lavoro di Edward Krasinski e mi ha coinvolto la sua capacità nel saper conciliare un quadro complesso di analisi con strategie formaliste e una tendenza narrativa sobria.

Quest’anno hai vinto una borsa di studio presso la prestigiosa Civitella Ranieri Foundation. Parlaci di questa esperienza.

Civitella Ranieri è un luogo straordinariamente bello e solidale. Sto trascorrendo il mio tempo leggendo, raccogliendo i miei pensieri e lavorando per nuove mostre. Qui sono circondato da un piccolo ma intelligente gruppo dinamico di artisti, scrittori e compositori provenienti da tutto il mondo. Questo è il mio primo soggiorno prolungato in Italia e non riesco ad immaginare un altro posto migliore in cui passarlo.

Ora che ti trovi in Italia avrai avuto modo di farti un’idea sull’arte italiana. Che ne pensi?

Durante questo breve periodo in Italia ho avuto la fortuna di conoscere molti artisti, curatori e critici, oltre che visitare diverse mostre nei musei e nelle fondazioni romane. La qualità di queste interazioni si afferma con una presenza forte e rigorosa. La libera editoria d’arte mi fa pensare che l’Italia in questo momento sia il luogo ideale per l’arte contemporanea.

a cura di giorgia salerno

[exibart]

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