07 luglio 2012

Fuori Uso. E invece ritorna, nella nativa Pescara, la rassegna che porta il contemporaneo in spazi “altri”

 

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Era nata nel 1990, su iniziativa di Cesare Manzo, gallerista pescarese, che aveva ideato una rassegna che prendesse in considerazione l’idea di svolgersi in luoghi della città in disuso, o comunque lontani dall’idea di sacralità che si riserva alle gallerie o ai Musei. Una sorta di Fondazione Trussardi antesignana, perché non va dimenticato che anche la nota casa milanese per i suoi incontri annuali utilizza spesso luoghi negati alla città.
Dopo l’ultima edizione, nel 2006, “Fuori Uso” però non si era più replicata, nonostante fosse stata un appuntamento annuale che, secondo alcuni (come aveva dichiarato la rivista “Segno” nel 1995) in diversi momenti aveva rappresentato l’apice massimo delle rassegne d’arte contemporanea in Italia insieme alla Biennale di Venezia. E non è un caso in effetti, anche perché Manzo aveva chiamato a Pescara decine di critici e artisti internazionali, a partire da Nicolas Bourriaud, Achille Bonito Oliva e Teresa Macrì, Emanuela De Cecco, il cinese Hou Hanru e Giacinto di Pietrantonio, Direttore della GAMeC di Bergamo che quest’anno torna a fare da Guida in una mostra, visibile da stasera fino al prossimo 7 settembre, che mette in scena una collettiva del best of dell’arte italiana, con alcune incursioni straniere. Volete qualche nome? De Dominicis, Garutti, Airò, Beuys, Calignano, Marinetti (si, proprio il futurista), Spalletti e Favelli.
Ma come si annuncia il “Fuori Uso” 2012? Giacinto di Pietrantonio l’ha definito come «un dialogo visivamente potente tra la grande scultura e l’arte contemporanea con l’architettura d’eccellenza, come quella firmata da Botta. Una manifestazione che ha fatto parlare di sé e di Pescara in Italia e che, secondo l’economista della cultura Pierluigi Sacco, ha ispirato istituzioni internazionali».
La vera novità di quest’anno però è data, insieme al ritorno della manifestazione, dal luogo in cui si terrà: non più un ex deposito degli autobus, fabbriche dismesse, magazzini o il celebre “Ferrotel”, il vecchio hotel costruito per le soste dei ferrovieri situato vicino alla stazione dei treni di Pescara che era stato sede di “Fuori Uso” nel 2003 e 2004, ma nel garage sotterraneo di un edificio di nuova costruzione, progettato da Mario Botta, chiamato “OperA” e finanziato dalla Caldora Immobiliare. Un ideale secondo tempo per una rimessa-in-opera di una manifestazione che non è per niente stanca.

1 commento

  1. Dopo cinque anni di interruzione, torna a Pescara Fuoriuso: la manifestazione ideata da Cesare Manzo riparte grazie alla disponibilità di un’impresa privata, la Caldora Immobiliare Costruzioni. La stampa specializzata accoglie la notizia con entusiasmo e qualcuno definisce addirittura “salvifica” la carta del privato in un contesto di progressivo indebolimento istituzionale e di scarsi investimenti pubblici sul versante delle politiche culturali. Eppure il significato dell’operazione appare snaturato e la specificità dell’evento viene meno, come sembrerebbe ammettere, tra le righe del suo testo per il catalogo della mostra, il curatore Giacinto Di Pietrantonio, che interpreta però il cambiamento come interessante possibilità, in grado di inaugurare una nuova tradizione. La formula di Fuoriuso era basata sul recupero di spazi dismessi della città attraverso l’arte: un procedimento inclusivo e democratico di riconquista e di reinserimento nel tessuto urbano di luoghi abbandonati. L’edizione del 2012 è ospitata nel parcheggio dell’edificio “OperA”, progettato da Mario Botta: una scelta che giustifica l’intervento dello sponsor promotore, ma che impone un notevole sforzo di adeguamento a livello concettuale per ricondurre il progetto nel solco tracciato dalle precedenti diciotto edizioni. L’edificio sarebbe “fuori uso” in quanto ancora in cantiere e quindi in corso d’opera. Senza dubbio questa lettura apre a inedite connessioni con l’architettura d’eccellenza: Di Pietrantonio ipotizza per il futuro un’evoluzione della rinata Fuoriuso, che comporti il passaggio dalla collocazione temporanea di opere nello spazio in costruzione alla progettazione di opere permanenti da collocare nei nuovi edifici. Nondimeno tale nuovo approccio sembra depotenziato: l’arte è rapita, segregata, reclusa in uno spazio esclusivo, non ha nulla da riconquistare, anzi è essa stessa conquistata.
    Così l’eloquente silenzio dei tre pianoforti esposti (John Cage, Please Play or the Mother, the Father or the Family, 1989; Giuseppe Chiari, Scultura per pianoforte, 1989; Filippo Tommaso Marinetti, Omaggio a Marinetti, opera realizzata nel 1989 per la mostra Pianofortissimo presso la Fondazione Mudima a Milano, a partire dalle indicazioni dell’artista) si carica di un significato ancora più denso nel parcheggio del palazzo di Botta. Una musica muta invade lo spazio, cullando l’opera di Mario Airò danneggiata (probabilmente dal vento), sfiorando le sculture di Ettore Spalletti, insinuandosi tra gli stracci di Michelangelo Pistoletto. La perfezione ingombrante di un simile triangolo dell’incomunicabilità cattura lo sguardo e i sensi, celando con discrezione persino i lavori di un paio di giovani artisti abruzzesi inseriti con qualche forzatura di troppo.
    Indubbiamente le aree geografiche periferiche, rispetto ai grandi centri privilegiati dal sistema dell’arte, non possono che trarre giovamento da simili iniziative, soprattutto nelle attuali contingenze di crisi economica che inducono inevitabilmente a diradare le occasioni di arricchimento culturale per concentrare le risorse su pochi, ma non per questo sempre significativi, eventi. Lodevole dunque l’impegno di chi è riuscito, nonostante la congiuntura negativa, a rimettere in piedi Fuoriuso e a portare a Pescara le opere di alcuni tra i più importanti esponenti dei principali indirizzi artistici del Novecento, dal Futurismo a Fluxus, dall’Arte Povera alla Pop Art, insieme a molte interessanti nuove proposte. Tuttavia, mentre la quiete rimbalza sul cemento, viene da chiedersi se l’arte sia oggi irrimediabilmente condannata a farsi portatrice di una promessa utopica così arrendevole.

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