06 dicembre 2012

L’intervista/Elisa Pierandrei Writers Attack. Nella Primavera Araba

 
I muri come “social network” del presente. I graffiti che raccontano le proteste al Cairo oggi, come a New York quaranta anni fa. Ma con una radicalizzazione politica e l’aiuto della tecnologia. Abbiamo intervistato Elisa Pierandrei, giornalista e arabista che nel 2011 ha vissuto i fatti in presa diretta, da quell'osservatorio privilegiato che è stato piazza Tahrir al Cairo. E che oggi pubblica un e-book sul fenomeno dei graffiti made in Medio Oriente

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In Europa perdono potenza. In Italia si scoprono di nuovo sui vagoni della metropolitana e sui muri di cinta nelle periferie urbane. A New York – dov’erano nati nella forma che meglio ricordiamo – sono pressoché scomparsi. Tornano invece laddove non ci si aspetterebbe di trovarli, in quelle zone del Nord Africa e del Medio Oriente che stanno vivendo situazioni di politica incerta, di grandi cambiamenti sociali. In Paesi che dopo decenni di dispotismo hanno scelto la piazza come luogo dove riprendere, simbolicamente, in mano il proprio destino di cittadini. Stiamo parlando dei graffiti, nati sotto il simbolo di un’occidentalizzazione all’indomani della primavera araba dei primi mesi del 2011, quando dal Marocco allo Yemen, diversi stati hanno ingaggiato una lotta contro il potere stantio, talvolta allontanando o uccidendo i vecchi tiranni, come nel caso emblematico di Egitto, Tunisia e Libia.
Un processo documentato dal lavoro di diversi artisti, che ha messo in luce una creatività fertile, seppur alimentata dallo sguardo sui codici dei Paesi capitalisti, in grado di parlare alle popolazioni interessate dalla rivolta. E che a volte ha reso i novelli writers delle vere e proprie star in patria, modelli per una comunicazione immediata e condivisa. Perché in fondo questa è l’anima del graffitismo: raccontare alla propria “banda” che cosa sta succedendo nel proprio universo, dal Bronx al Cairo anche quarant’anni più tardi, ma con lo stesso appeal, nonostante la diversa estrazione sociale.
Per raccontare i graffiti della primavera araba ci siamo rivolti a chi li ha visti nascere e osservati più da vicino: Elisa Pierandrei, arabista e giornalista impegnata su questo fronte da circa dieci anni, autrice dal 2005 di approfondimenti sul tema per alcune testate nazionali italiane e che nel 2011 vive a Piazza Tahrir i 18 giorni che portano alle dimissioni dell’ex presidente Hosni Mubarak. Un anno di viaggi continui tra Egitto, Libia, Tunisia e Marocco, dal quale è nato l’e-Book “Urban Cairo. La primavera araba dei graffiti”.

Sei stata in prima linea durante la primavera araba del 2011. Siamo ancora alla rinascita o, come hanno scritto in molti, l’autunno è già arrivato e poco è cambiato dai tempi di Ben Ali o Mubarak?
«Le popolazioni arabe che per decenni sono state ostaggio di regimi dispotici e violenti stanno imparando che la democrazia è un esercizio quotidiano. Noi, invece, dovremmo imparare a non guardare al presente sempre con gli occhi del passato».
Abbiamo programmato questa intervista a partire dal tuo reportage “Urban Cairo. La primavera araba dei graffiti” pubblicato da Informant, dove hai analizzato, insieme ai fatti “politici” anche le tensioni di artisti di strada, graffitisti e writer che si sono riversati in piazza per lanciare messaggi attraverso una modalità creatività. Che cosa ti sei trovata di fronte? Qual è stato l’effetto?
«Ti rispondo con un aneddoto. Nel mese di ottobre 2011, i copti (i cristiani d’Egitto, circa il 10 per cento della popolazione) organizzarono un lungo sit-in davanti alla TV di Stato al Cairo, un edificio chiamato “Maspero”, per protestare contro l’incendio di una chiesa in campagna. La giunta militare risponde con gas lacrimogeni e violenza. La TV di Stato invita i cittadini ad agire direttamente nei confronti della minoranza copta. Era chiaro a quel punto che l’arma più pericolosa in mano allo SCAF (Consiglio Supremo delle Forze Armate) era la loro propaganda mediatica. El Teneen (il Dragone), uno dei writer più attivi durante la Rivoluzione, realizza il pezzo “Occupy Maspero” in risposta. Ne dipinge uno davanti alla sede del Parlamento. Ed un altro davanti all’edificio della Tv di Stato».

I ragazzi di piazza Tahrir hanno adottato un mezzo linguistico che fa parte della cultura occidentale, soprattutto statunitense. Eppure hanno assimilato tag e  bombolette come “modus operandi” di stampo politico. Pensi che in Occidente non sarebbe più possibile una corrispondenza del genere?
«I murales politici in Egitto, Tunisia e Libia sono espressione di una parte della scena culturale metropolitana giovanile fortemente globalizzata. È un fenomeno che fa riferimento ad altre rivoluzioni accadute altrove, in tempi non troppo lontani. Mi riferisco, ad esempio, alla rivoluzione portoghese dei Garofani, nel 1974. Anche all’epoca il linguaggio visivo servì ad amplificare i messaggi politici e creò nuove forme di intervento nello spazio pubblico. I rivoluzionari portoghesi si espressero attraverso adesivi, murales, manifesti politici, caricature, vignette e fotomontaggi».

Hai detto che i muri delle città arabe sono un “social network fisico”. Spesso le autorità sono intervenute a rimuovere parole, disegni e invocazioni, messi in scena ad esempio dall’artista iraniano Maziar Mohktari con la serie di stampe Palinsest: ad Isfahan durante la notte i muri cittadini vengono invasi da scritte inneggianti la libertà e la rivoluzione. All’alba le medesime scritte vengono cancellate con vernice gialla dagli addetti delle pulizie al servizio del governo. Qual è la forza e la funzione del graffito urbano in Medio Oriente?
«Come spiega bene la gallerista Stefania Angarano nell’introduzione a Urban Cairo, “i graffiti sono riproducibili all’infinito, grazie alla tecnica dello stencil di velocissima esecuzione, spesso piccoli e quindi adattabili a qualunque spazio, sono realizzabili da chiunque, anche da chi artista non è”. Sono anche il volto pacifista della guerriglia urbana, grazie alla quale nei mesi delle rivolte arabe i volti delle vittime hanno sostituito nella memoria collettiva il ritratto dell’egiziano Mubarak o quello del tunisino Ben Ali. Il solo fatto di esistere come movimento, che ha un obiettivo comune ed è capace a volte di coordinarsi,  è stato e continua ad essere un atto di grande resistenza, in un contesto urbano pieno zeppo di divieti».

Ci racconti come si sta evolvendo la carica dei writers? Ora, hai scritto, che si stanno occupando della denuncia degli atti di molestia: attenzione per le donne?
«Oggi il bisogno di comunicare dei writers egiziani esprime la necessità di cambiamento nella sfera sociale. Le molestie contro le donne sono un fenomeno quasi endemico, anche se limitato ad alcune zone, al Cairo. I writers ne hanno preso coscienza e hanno deciso di denunciarlo sui muri della capitale, sperando di provocare una reazione. In alcuni casi si tratta di artisti che si esprimono anche in altri ambiti della cultura metropolita contemporanea, come la musica underground e il fumetto».

Urban Cairo è anche un e-book: quanto conta la condivisione in questo preciso periodo storico? Che cosa è necessario al rinnovamento europeo, prendendo esempio dalla vicina primavera araba? 
«Pensare alla primavera araba in formato e-book (che ha una mappa interattiva dei graffiti del Cairo) è stata la sfida che cercavo. Quando l’editore mi ha contattata per chiedermi se volevo partecipare al lancio di una nuova collana di e-book sul giornalismo narrativo e investigativo non ho avuto grosse esitazioni. L’e-book  promuove il libero e rapido scambio di idee, ovunque tu sia. In metro, in aereo, in treno, sul tuo smartphone o su un tablet o un e-reader. Inoltre per me era importante esprimermi attraverso un mezzo di comunicazione digitale, per rafforzare l’idea che le rivolte arabe sono un segno del cambiamento dei tempi e comunicarne l’urgenza. Ho sempre considerato molto stimolante la lettura di “The medium is the message”, dell’intramontabile Marshall McLuhan. A volte mi sembra che noi europei non abbiamo una visione altrettanto elaborata della funzione dei nuovi media».

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