11 dicembre 2012

La prima volta dell’India

 
12-12-12. La prima Biennale dell'India inizia oggi in Kerala, uno degli stati più belli e più ricchi. Un miscuglio di medium espressivi con artisti locali e internazionali, tra cui il nostro Giuseppe Stampone ed Ernesto Neto, che hanno “occupato” con installazioni site specific spazi pubblici ed edifici storici in disuso. Che cosa uscirà da questa nuova tappa nello sviluppo del Subcontinente? Provate a indovinare. Con un occhio al genius loci

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Non c’è un sguardo unico (come un pensiero unico) per l’India contemporanea, ma una miscellanea che può avere risvolti più occidentali e altri lati molto più “local”. Lo aveva raccontato bene una mostra della scorsa stagione al Centre Pompidou di Parigi, intitolata “Paris-Delhi-Bombay”: dieci anni di ricerca e collaborazioni del museo francese con una serie di istituzioni indiane e artisti internazionalmente riconosciuti, provenienti dal Subcontinente. Una sorta di “Les Magiciennes de la Terre” nell’epoca della globalizzazione, che però svelava un retroscena culturale e di colori, poetico ed originale. Ma cosa accade davvero sulla scena indiana contemporanea, non nella sua versione occidentale ma sul suo territorio? Una buona occasione per tentare di tracciare un resoconto è partire dalla prima Biennale indiana, che inizia oggi a Kochi, città costiera della regione del Kerala, in una data simbolica non scelta a caso, 12-12-12, e che si estende nell’antico porto di Muziris, i cui reperti sono stati scoperti negli ultimi anni, e sulle isole vicine.
Organizzata dalla Kochi Foundation, no profit presieduta dall’artista e curatore Bose Krishnamachari e dall’artista Riyas Komu, inserito proprio in “Paris-Delhi-Bombay” e invitato da Robert Storr per la sua Biennale di Venezia del 2007, la prima Biennale di arte contemporanea indiana si disloca in sette luoghi diversi della città, dagli spazi urbani agli edifici storici o dismessi, in quella che Komu ha definito come una «combinazione speciale tra sito antico e moderno, che rendono unica la biennale di Kochi-Muziris».
Uno dei main-space sarà l’Aspinewall, grande edificio di fronte al mare, in origine un locale di stoccaggio per l’export di prodotti da parte della compagnia inglese Aspinwall Ltd. Fondata nel 1867 dall’omonimo commerciante inglese, restano nell’edificio, una serie di magazzini e una grandissima area esterna, dove pare ancora di sentire i profumi speziati dei prodotti che salpavano dal Kerala alle volte dell’Europa. Altro luogo storico interessato sono i magazzini Mattanchery dismessi: emblema centrale del commercio del Kerala. Ubicati in un tratto di strada nei pressi di Fort Kochi, accolgono al loro interno, su una superficie di quasi 100mila metri quadrati, tutto quello che ha a che fare con i media e il video. Secondo i curatori, la parte dell’esposizione al Mattanchery Warehouse potrebbe aprire un dialogo innovativo tra l’arte e la città, nella “rianimazione” di strutture in forte stato di degrado e abbandono.

Gli altri luoghi selezionati richiamano a loro volta il retaggio storico e cosmopolita della metropoli moderna di Kochi e del suo predecessore mitico, Muziris appunto, e sono Durbar e David Hall, il Cochin Club, la Pepper House: tutti edifici intorno al Parade Ground, usato dai coloni portoghesi per i loro armamenti e dagli inglesi e olandesi per le parate militari. Oggi Parade Ground è una piazza pubblica sulla quale trovano spazio una serie di installazioni site specific.
Prima di continuare, però, va specificata anche l’intenzione politica della Biennale del Kerala: portare attenzione alla storia del Paese e della zona. L’arte contemporanea, in questo caso, è un medium per puntare i riflettori anche sull’archeologia di Muziris, porto scomparso durante un’alluvione nel 1341 e anello fondamentale nella cultura e nell’antica vita commerciale che aveva attirato qui romani, greci, commercianti cinesi, ebrei e arabi provenienti da tutti i mari, con le loro influenze architettoniche e culturali. Nella regione infatti sono state costruite, per la prima volta in India, la prima chiesa cristiana, la prima moschea (Cheraman Juma Masjid) e la più antica fortezza portoghese. Una zona che oggi, con il sostegno del Governo dello stato del Kerala e del governo centrale indiano, si candida per diventare il fiore all’occhiello della zona, anche se al momento rimangono solo monumenti in condizioni fatiscenti e poco attraenti per i turisti, sia stranieri che locali, che della regione cercano principalmente spiagge e natura incontaminata. Insomma, il contemporaneo potrà servire a «dare una luce brillante al nostro patrimonio culturale e artistico», sostengono i curatori.

Già, una luce brillante, perché la seconda questione che si scopre, come ci racconta Giuseppe Stampone, artista italiano in mostra a Kochi, è che gli indiani hanno fatto di tutto per lanciare solo qualche notizia frammentata rispetto alla manifestazione, che in realtà è sponsorizzata niente di meno che da Google – che in India  “usa” parecchia manodopera, per usare un eufemismo – e che farà uscire un sito web internazionale, con i nomi degli artisti coinvolti, solo poche ore prima dell’inaugurazione. Al momento della stesura di questo pezzo i nomi dei partecipanti dichiarati sono pochi, ma di grande livello e sicura attrazione mediatica: Santiago Sierra, Alfredo Jaar, Subodh Gupta, Ai Weiwei, Ernesto Neto, Cyprien Gaillard, Sudarshan Shetty, Nalini Malani, Sheela Gowda, Carlos Garaicoa, Jannis Kounellis e il nostro Stampone, appunto. Una modalità per creare attesa. E per tirare fuori gli artigli smentendo la facile idea che si tratti solo dell’ennesima Biennale d’Oriente.

Il parterre parecchio mainstream stabilizzerà ancora di più l’ottima condizione di mercato, come rivela anche “The Arts Trust”. Che fattura poco meno di 300 milioni di dollari l’anno e che dal 2005 ad oggi non ha subito flessioni se non nel periodo 2008-2009, momento dell’inizio mondiale della crisi. Lo dice a chiare lettere anche lo stesso direttore dell’ “Arts Trust” indiano, Tushar Sethi: «Da gennaio 2013 il mercato tornerà a salire dopo i risultati giudicati altalenanti, ma comunque ottimi, di Christie’s, Saffron e Pundoles (le case d’aste indiane, n.d.r.)».
Tre mesi di festa insomma, per aumentare l’attenzione su una delle regioni più belle del mondo, per portare nuova ricchezza e nuovo pubblico. Il governo del Kerala, con i suoi migliori artisti e con un progetto di ampio respiro, si è guardato intorno e ha deciso di puntare su qualcosa di “sfuggente” come l’arte per ricavare indotto attraverso l’uso delle proprie rovine. Leggendo comunicati stampa e ascoltando le parole dei promotori della Biennale di Kochi le prime parole ed espressioni che rimbalzano in testa si riferiscono alla “rete”, che spesso, Italia compresa, pare avere maglie troppo larghe: “cooperazione”, “attrazione di visitatori”, “sviluppo delle arti”, “incentivare turismo”, “incoraggiare la comunità locale”, “occupazione” e “turismo culturale” a partire da un’eredità antica. Non a caso il Kochi Durbar Art Center, edificio storico gestito e di proprietà della  Lalitha Kerala Kala Akademi, è stato rinnovato e ristrutturato dalla Fondazione Kochi, trasformandolo in uno spazio espositivo con una serie di standard museali internazionali, proprio in occasione di una Biennale che promette di portare nella zona anche un nuovo sviluppo delle infrastrutture, dalle strade agli alberghi.
Un’operazione che è solo all’inizio, ma che Bose Krishnamachari e Riyas Komu assicurano non si ferma qui. Come? Anzitutto, con una formazione internazionale dei professionisti dell’arte locali che li metta in condizione di continuare e migliorare in futuro la manifestazione, abbattendo anche i costi di “manodopera” estera per l’organizzazione. 

Ma che l’India si stia preparando anche “pedagogicamente” a far conoscere, e sfruttare, i consueti canali occidentali, non è cosa di oggi. In questi giorni, in concomitanza con l’inizio della kermesse, anche FICA – Foundation for Indian Contemporary Art – di Delhi, mette in scena la sesta edizione di “Art in the Twenty-First Century”, un resoconto dei temi di molta dell’arte contemporanea occidentale letta attraverso documenti di prima mano, ovvero interviste agli artisti, video e talk. Protagonisti: Sarah Sze, Marina Abramovic, Tabaimo, Ai Weiwei, El Anatsui e Catherine Opie solo per citarne alcuni.
Insomma, se non vi è ancora chiaro sappiate che il gigante indiano si sta appropriando del meglio del mondo occidentale dell’arte, mercato compreso. Non a caso dal prossimo 31 gennaio sarà di scena, di nuovo a Delhi, la quinta edizione dell’India Art Fair: 106 gallerie provenienti da 24 Paesi del mondo a cui prenderà parte anche un parterre tutto toscano: Continua, Poggiali e Forconi e MK di San Giovanni Valdarno. E, visto che ancora manca parecchio tempo, vi lasciamo con una dichiarazione di uno dei massimi sostenitori di India Art Fair: «Siamo lieti di sostenere questa fiera, a riconoscerne la sua importanza come momento di unione  per tutti coloro che sostengono lo sviluppo artistico nazionale dell’India e il futuro del suo mercato». Parola di Amin Jaffer, Direttore Internazionale del settore Arte Asiatica di Christie’s.

Chiudiamo, però, con uno stralcio di romanticismo: volete conoscere il testo riportato in calce alle motivazioni che hanno portato alla nascita della prima biennale indiana sul sito http://kochimuzirisbiennale.org? «Il mondo stima l’artista perché il suo lavoro aggiunge una nuova dimensione alla comprensione della vita, e l’amore per l’arte arricchisce le nostre esperienze. L’arte porta gioia alla nostra esistenza e la approfondisce con le sue manifestazioni. Le arti aiutano l’individuo a raggiungere una maggiore soddisfazione. La convinzione in queste dinamiche è stata una delle motivazioni principali per la creazione della Kochi Muziris Biennale». Vi sembra poco di questi tempi?

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