29 gennaio 2013

Il sublime, tra melanconia e sparizione

 
A Bologna c'è una mostra da non perdere: "Bas Jan Ader. Tra Due Mondi". È l'occasione per vedere in Italia questo artista anomalo, scomparso nel nulla dell'Oceano, per il quale si è evocata l'estetica del sublime (qualche anno fa, alla Galleria Civica di Modena). Ma il suo lavoro, che riattualizza la melanconia di Dürer, molto si incentra sul tema dell'annullamento. Perché forse questo, se radicalizzato, schiude al sublime

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È una lunga scalinata quella che porta alla Villa delle Rose. Passo a passo si apre l’architettura e, abbassata la maniglia, un bianco chirurgico riempie gli occhi; sembra che l’artista veleggi ancora tra le sue opere, ancora cercandosi. Questo è “Bas Jan Ader. Tra due mondi”, fino al 17 marzo a Bologna. Personalità controversa e audace, performer sparviero e ironico, Bas Jan Ader scomparve in mare nel 1975 durante il tentativo di attraversare l’oceano Atlantico a bordo di una piccola imbarcazione; stava preparando la seconda e la terza parte della mostra “In search of the miraculous”. Della sua ricerca artistica non se ne seppe più niente e di lui, per quasi trent’anni, si serbò a malapena il ricordo.

Oggi, grazie agli sforzi congiunti del MAMbo, in collaborazione con il Museum Boijmans van Beuningen e al curatore Javier Hontoria che all’artista ha dedicato i suoi studi, l’istituzione bolognese può a ragione fregiarsi di aver introdotto nel panorama italiano un tassello imprescindibile, una chiave di volta necessaria alla comprensione delle avanguardie che seguirono gli anni Settanta. Per questa antologica in Italia, è stato scelto un percorso espositivo minimale e non ingessato che riflette lo stile ideale dell’artista: lungo i due piani le sale si alternano secondo nuclei tematici forti e ben definiti (Melanconia e Romanticismo, Come scomparire completamente, L’eredità di Mondrian, Linguaggio e teatro, I’m too sad to tell you, Falling), coppie dialettiche che richiamano a memoria il fare sintetico e ardito dell’artista che seppe – in meno di dieci anni – render carne l’esperienza del pensiero.

Ma quanto intuitivo e profondo appare oggi il suo tentativo di stimolare la riflessione attraverso atti performativi conclusi in se stessi? Quanto l’anima delle forme poteva sposarsi con quel bianco e nero stringente che ammantava i suoi primi piani, le sue celebri cadute, i suoi impeti orgogliosi, la tensione del limite agito tra presenza e assenza, tra inquietudine e perfetta lucidità?

A tutti questi interrogativi e anche a quelli che nascostamente si rivelano nella lettura del bel catalogo a corredo della mostra (riadattato dal team del Mambo dall’originale edizione del Museum Boijmans van Beuningen), l’antologica riesce a rispondere, legando la riflessione acuta di Bas Jan Ader alla natura dell’io sono (l’uomo sospinto tra passato e presente). Emblematica in questo senso è l’opera I’m too sad to tell you dove il pianto è posto come significante puro e allo spettatore non rimane che cancellare il portato ontologico del binomio causa/conseguenza.

Caduta e melanconia sono i cardini della riflessione dell’artista, una coazione a ripetere che compare nelle sue opere più celebri (Fall I, Los Angeles, 1970, Fall II, Amsterdam, 1970, Nightfall, 1971, I’m too sad to tell you, 1971, Broken Fall (geometric) Westkapelle, Holland, 1971, Broken fall (organic) Amsterdamse Bos, Holland, 1971). Due temi intimamente legati dal processo di un ricordo che è punto esatto e anello debole, ferita già evocata da Albrecht Dürer.

Quei video, quella reiterazione del gesto, altro non sembrano che un avvicinamento, necessariamente per approssimazione, al confino irrisolto del nucleo centrale di quel mondo ineludibile – la melanconia – che attrae verso il suo centro qualunque essere corporale abbia la ventura di transitarvi: la smorfia del riso dietro al pianto segreto, il magma delle viscere come fusione della superficie. Non c’è principio e non c’è fine, non c’è prima e non c’è un dopo, c’è solo la constatazione di quel minuto identico (Proust) che segna la percezione distinta dell’universo (Borges); una gnosi eternamente caduca, coppia antitetica che Jörg Heiser ha definito brillantemente concettuale romantico: una forma non definibile discorsivamente ma che può essere colta solo intuitivamente.

Si può sorridere allora di un uomo che cade da un albero, che si piega come un giunco per poi giacere a terra, ma si badi bene che dietro quell’ironia, quell’apparente nonsense, si nasconde en travesti la tragedia. Il riso, a volte, è l’ultima arma che possiede l’uomo per dire ed esorcizzare l’indicibile. Il padre di Ader, capo della Resistenza, venne infatti fucilato in una prigione di Amsterdam durante la seconda guerra mondiale dalle truppe naziste. La caduta come attraversamento è da intendersi allora nella sua doppia accezione di caduta e fallimento (fall/fail), insistendo così sia sul suo senso teologale, come martirio, che come inverno della ragione. E anche il tema fortemente presente della “sparizione”, può essere ricondotto a questa origine. E paradossalmente, nonostante il tempo in Ader sia sospeso e interrogato solo come entità parallela allo scorrere della sua riflessione, la sua azione contiene la storia.

Se la lezione di Ader per quanto circoscritta in un tempo così breve, possa essere rivalutata è un ordito che necessita di una relazione seria e temporalmente molto più lunga, una ricerca miracolosa, che solo la comunità scientifica nel suo insieme potrà affrontare, esaminando con smentite e prove, dinieghi e carteggi a verifica, l’abilità di un individuo che cercando se stesso trovò il mondo, e quando lo trovò il mondo perse un’anima eccellente, che si spera con riposo, aleggia ancora tra due mondi, il nostro e l’intellegibile altrove.

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