08 febbraio 2013

Anatomia del Premio Furla. E altre cose

 
Anatomia del Premio Furla. E altre cose
di Roberto Ago
Come mai i "vincitori" di questo premio raramente si affermano e tendono anzi a diventare fantasmi? E qual è il meccanismo che sta dietro la "pedofilia artistica" che brucia i giovani dopo avergli concesso quindici mesi di celebrità?

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Invitato da Antonio Grulli e Davide Ferri a Bologna per partecipare a un talk assieme ai cinque selezionatori italiani del Premio Furla, ho dovuto declinare l’invito per cause di forza maggiore. Tuttavia, sollecitato dai due curatori, ho individuato qualche punto di analisi e un paio di proposte per un premio, a detta di molti, dalle poche luci e dalle tante ombre.

Tra tutti gli artisti passati per il Premio Furla (e parliamo di ben nove edizioni per un totale di quarantacinque nomi), forse solo Paola Pivi (che non vinse) e, in misura minore, Lara Favaretto e Pietro Roccasalva, possono dirsi soddisfatti dei successi fin qui accumulati. Per il resto, poche o nulle mostre personali nei musei stranieri e assenza dalle grandi collettive e rassegne internazionali, se non per invito o intercessione di curatori italiani (e a volte nemmeno di quelli), sembrerebbero caratterizzare le carriere dei pochi altri fortunati approdati sul mercato estero. I quali dunque, alla lunga, potrebbero perdere via via credibilità finanche ad eclissarsi, o al contrario resistere fino ad ottenere una tardiva consacrazione.

Due, a questo punto, le possibili letture: o il bilancio è positivo, con una decina di artisti (sia vincitori che concorrenti) in giro per il mondo ma ancora in attesa di un attestato di stima chiaro e condiviso o, viceversa, negativo, perché quello che si ritiene essere il meglio dell’arte italiana, pur circolando a livello internazionale ormai da molto tempo, non è ancora riuscito ad imporsi. La difficoltà di una risposta univoca appare tuttavia sospetta, e lascia intendere di poter sottoscrivere indifferentemente entrambe le ipotesi. Occorrerebbe allora stabilire se la “momentanea” débâcle dipenda dal Premio Furla o, piuttosto, da una carenza strutturale dell’arte italiana. Perché è facile prevenire l’obiezione: se l’arte nostrana è quella che è, il premio non può che prenderne atto e l’aver sdoganato Oltralpe un po’ di artisti è già motivo di successo. Vero. Ciò non toglie che si possano rilevare alcune sue responsabilità e mancanze nel conseguimento di risultati che appaiono, nel complesso, poco entusiasmanti. Proviamo ad analizzarle.

È noto – e il soggetto anonimo Luca Rossi ha avuto, in ciò, molti meriti – come anche il premio Furla sia afflitto da quell’eccesso di “autoreferenzialità de-responsabilizzante” che caratterizza in genere il sistema dell’arte italiano. Con le dovute eccezioni, un vizio genetico sugli altri appare diffuso e capillare: la sostanziale cooptazione di critici, curatori e operatori vari fortemente compromessi, nella loro autonomia di giudizio e responsabilità personale, dalla previa introiezione di un insieme di prassi collettive, scale di valori e credenze (molto spesso erronee) avvertite come ineluttabili e giuste. Con il risultato di un pensiero unico e conformista che va per la maggiore e che non ammette critiche. Senonché, in una fase storica in cui accademie e percorsi di formazione non sembrano riuscire a produrre artisti particolarmente efficaci, e in cui la critica si è dovuta inabissare per far posto a una curatela che avalli le leve mediocri che sovente essa stessa forma e promuove, urgono più voci alternative capaci di denunciare una situazione sostanzialmente incestuosa e masochista che rischia di produrre il fallimento dell’azienda artistica italiana (se non è già fallita).

La gran parte degli operatori appare oggi concorde nel promuovere (e illudere) quasi esclusivamente decine e decine di giovani e giovanissimi artisti, tra cui palesi imposture, sostenendoli all’inizio della loro avventura creativa e abbandonandoli subito dopo, visti i risultati ineluttabilmente mancati. Il tutto senza mettere in discussione una tale attitudine infanticida, anzi, mentre gli artisti vanno ridimensionandosi fino a volte a scomparire, quelli che hanno promosso la loro bocciatura guadagnano posizioni, tanto da agguantare qualche poltrona da cui dirigere ulteriori operazioni di reclutamento. Una logica autolesionista paradossale solo in apparenza, perché redditizia. Essa è conseguente a quell’ideologia scolastico-giovanilistica imperante in Italia che è perfettamente coerente alla busta-paga dei vari addetti alla formazione, promozione e informazione, i quali  inquinano, con la loro idolatria di un hic et nunc magnifico e progressivo, ogni ricerca e maturazione a venire.

Trincerati in un provincialismo coadiuvato da esterofilia, selezionano e premiano quasi esclusivamente giovani promesse intagliate su modelli esteri d’importazione. Applaudite quando ancora acerbe, queste ultime difficilmente riusciranno a mettere in discussione le loro ricerche maldestre o manierate, una volta rottamate. Troppo tardi. A pagarne le spese, intere cordate di agnelli sacrificali che precedono le successive infornate di vittime innocenti necessarie a nutrire l’ingranaggio con scadenza più o meno biennale, mentre anche i galleristi e i collezionisti ingenui che hanno creduto all’ennesima “novità” non dovrebbero essere, a questo punto, troppo contenti. Una consuetudine che paradossalmente sembra andare bene a tutti perfino ai giovani artisti, illusi che i loro quindici mesi di celebrità dureranno in eterno, e una dinamica perversa perfettamente colta dal ricambio&sterminio di graziose inservienti nella Seul di Cloud Atlas, bel polpettone new age che consiglio di andare a vedere anche perché rappresenta egregiamente un tale sacrificio di massa.

Poiché un critico/curatore attivo in Italia e invitato al premio Furla difficilmente potrà costituire un buon esempio per sé e per i successivi selezionatori, una soluzione potrebbe essere quella di coinvolgere esclusivamente i curatori italiani residenti all’estero. Ultima ratio? Sì, e non è detto che funzioni, perché la pedofilia artistica potrebbe nel frattempo averli contagiati. Ma in caso di successo potrebbero riportare sui binari un treno nazionale che è deragliato, e così servire da esempio ai loro conterranei rimasti a casa. Perché in troppi ormai sembrano confondere l’eccezione con la regola, ignorando come, il più delle volte, una ricerca artistica approdi a risultati originali solo tra i trenta e i quarant’anni, e raramente prima. Si pensi a quanti artisti informali giunsero all’astrazione addirittura tra i quaranta e i cinquant’anni, o a che lungo percorso autonomo coronato da successo incontrò Rudolf Stingel solo una volta giunto in America.

Di occasioni per emergere, in Italia, ce ne sono tante. Si lasci ai puledri di farsi i muscoli in occorrenze meno prestigiose e si riscatti il Furla sul modello dei grandi premi internazionali. A danneggiarli, infatti, non è tanto la visibilità precoce, quanto gli applausi eccessivi, prematuri e immeritati. Non capire ciò, credere il contrario o far finta di non saperlo è ignoranza della storia dell’arte e delle sue dinamiche – o frutto di malafede, o un misto delle due cose.

Un premio davvero importante, come per esempio il Turner Prize, dovrebbe non solo celebrare i cosidetti “mid-career” (diciamo quelli tra i trenta e i quarant’anni), ma convincere il pubblico e gli addetti ai lavori della bontà dei loro risultati. Troppo spesso, invece, vengono lasciati a loro stessi proprio quando sono maturati e hanno dimostrato di valere qualcosa. Per fortuna le vie dell’arte sono infinite e se bravi avranno trovato il modo di andare avanti lo stesso, magari con l’aiuto dei loro galleristi, spesso più abili e volenterosi, nello sponsorizzarli e stringere alleanze, dei critici e curatori. Chi di dovere infatti fa poco o nulla perché, lo si è capito, ormai sembra credere esclusivamente nel sol dell’avvenire rappresentato dagli ultimi arrivati, un sole che tramonterà presto. C’è odore di escatologia in tutto ciò, suicida per giunta. Lo si sappia almeno.

Sarebbe così facile constatare come molti “mid-career” mai invitati al premio Furla (e alla Biennale) siano messi, oggi, decisamente meglio di molti giovani gettonati delle passate edizioni. In realtà, lo si capiva già allora, e con buona pace di chi non ha occhio nemmeno col senno di poi, chi fosse meritevole di sponsorizzazione e chi no. Tanto per non parlare in astratto, cito cinque nomi a caso di esclusi eccellenti, non necessariamente dei “geni”: il classico ma originale Gianni Caravaggio, ben più solido di un Christian Frosi certamente più cool (perché manierato), o di una Alice Cattaneo curiosamente nostalgica degli anni Cinquanta; l’ostico Francesco Gennari, più inflessibile di un Simone Berti e di una Stefania Galegati alla lunga indecisi; Flavio Favelli, più dimesso ma anche più centrato di una davvero troppo eclettica Lara Favaretto o di un Marcello Maloberti affettato; Alessandro Pessoli, più sospeso di una Margherita Manzelli tarata solo sugli anni Novanta e dunque invecchiata per sempre, o di un Ian Tweedy all’ultima moda; Zimmerfrei, più maturi di un Daniele Puppi o di una Ra Di Martino rimasti scolastici a causa dei troppo precoci allori.

È solo la mia opinione, certo, ma quantomeno è l’opinione di uno che, invitato a suo tempo ad occuparsi di arte “giovane” su importanti riviste e portali elettronici, preferì declinare l’invito considerando l’arte una faccenda “da grandi”. Ma che significa tale comparazione di nomi, forse che il Furla non sa selezionare gli artisti? Anche. Soprattutto però, immaginate che sollievo l’edizione in cui si contendessero il podio i cinque esclusi di cui sopra (ma potrebbero anche essere altri), che senso di fiducia nell’arte contemporanea e di giustizia morale scaturirebbero in noi nel dover soppesare non più delle fragili ricerche già cristallizzate, bensì qualcuno che è resistito nel tempo (e che resterà) ma fatica ad imporsi all’attenzione collettiva sia all’estero che in Italia.

Una seconda e terza proposta per il premio Furla, allora, potrebbero essere queste: quantomeno si alternino un’edizione di “emergenti” (ma non di bambini altrimenti saremmo da capo, diciamo di nati prima dell’ ’82) ad una di “mid-career” (nati dopo il ’72), in modo da valutare, ogni quattro anni, nel primo caso chi siano effettivamente i nuovi nomi più promettenti (per esempio, in questa edizione, non sarebbe stato meglio privilegiare uno Yuri Ancarani, un Danilo Correale, una Anna Franceschini, una Alek O., una Rossana Buremi, o sono già cinque maestri!?), e nel secondo chi abbia saputo consolidarsi oltre ogni dubbio. Inoltre, che si abbia il coraggio di istituire, come primo premio e studiando bene la formula, per i “mid-career” la segnalazione automatica alla Biennale di Venezia (due anni dopo), e per gli “emergenti” una personale museale con tanto di catalogo, magari a rotazione in uno dei musei dell’Amaci. Altrimenti in Italia, sia l’artista affermato che la giovane promessa continueranno ad essere dei fantasmi.

5 Commenti

  1. Analisi giusta. Aggiungo che servirebbe un confronto critico vitale tra addetti e pubblico (assente in Italia tolti curiosi, gli stessi addetti ai lavori e collezionisti) prima e dopo questi premi, come prima e dopo il padiglione Italia. Mancano le motivazioni e le urgenze delle opere, manca un sistema vitale fatto da uno scambio tra artista-pubblico-addetti ai lavori.

    Queste cose, senza mai offendere nessuno, le scrissi su flash art nel 2009 e ho ricevuto solo censure e insulti. In un altro paese mi avrebbero invitato al premio Furla, favorendo così un effetto a cascata vitale su sistema e mercato. Ma ognuno censura ed è chiuso sul suo orticello. Parlo di vettese, Gioni, Bordignon, bruciati, Gea Politi, Bonami, pietronarchi, Giacinto di Pietrantonio, Paolo Zani, bonacossa, Garutti, Maraniello, Lissoni, Bertola,…e altri, corbetta, cattelan, cramerotti…persone che potrebbero fare molto e fanno poco nulla. Forza!

  2. Aggiungo peró, Roberto, che qualcuno ci deve spiegare perchè vanno bene Ancarani, Buremi, Caravaggio, Gennari e compagnia bella….Franceschini e Alek O comprese…

    Non voglio classifiche ma un confronto critico vitale, e che sia di stimolo per tutti. Ma forse manca anche il luogo adatto, forse un blog…

  3. Caro Luca vanno bene loro e non altri per una questione tanto semplice quanto imponderabile: l’occhio. Chi ce l’ha sa che i nomi che ho fatto, in Italia, sono un buono standard. Ma se vuoi criteri più oggettivi considera che sia i 5 “mid-carreer” che i le 5 “promesse” hanno tutti una cifra stilistica abbastanza riconoscibile. Naturalmente questa è condizione necessaria e non sufficiente per rimanere, ma è già qualcosa. Le giovani leve invece spesso non rispettano nemmeno la prima condizione. Infine, tieni presente che il “gusto” non c’entra nulla. Io considero Kris Martin un genio, mentre non amo per nulla la Beecroft. Eppure, non c’è dubbio che quest’ultima sia nettamente più importante del primo perché più innovativa. Dunque non è che ami necessariamente tutti gli artisti italiani che ho citato, anzi, solo che tenendo conto di molteplici parametri possono considerarsi come alcuni tra i candidati più attendibili. Se in Italia si sapesse distinguere almeno un poco il valore di un artista dal proprio gusto personale, le cose andrebbero decisamente meglio. Ciao RA

  4. @Roberto: su questo hai ragione. Si tende a perdersi in una contemplazione sterile, rifugiandosi nel “mi piace” (un po’ alla milovan farronato che sceglie gli artisti come abiti del propiro guardaroba…e non a caso la mala gestione di viafarini negli ultimi anni porta i non frutti dell’ultimo premio furla). La tua analisi accennata come risposta al mio commento avrebbe bisogno di un luogo dove argomentarsi, anche in modo semplice e leggero. Questo è anche il problema.

    Non abbiamo critici e operatori capaci di analizzare oltre il “mi piace”. Costoro sono anche abili politici che tendono a censurare e mortificare il pensiero divergente. Inoltre bisogna dire che un Gioni ha un rapporto di amore-odio vero l’italia che non gli permette di avere un atteggiamento libero e leggero come quando gira per le strade di new york. Per fare un esempio concreto.

  5. @Aldo e Marta: concordo. Se c’è una crisi della critica e del pubblico (sono usciti miei articoli in questo senso nel 2009 su flash art), esiste anche una crisi del linguaggio artistico. Con Roberto Ago in un dialogo su whitehouse, abbiamo parlato di “crisi della rappresentazione”. In italia l’arte è considerata poco importante e poco seria, mentre invece respiriamo arte in continuazione nel quotidiano come sul luogo di lavoro o nella vita affettiva. Tu Aldo guardi giustamente le foto di documentazione….ecco gli artisti sono spesso fuori dal tempo. Vi invito a fruire di “I’m not Roberta” un progetto che mi sembra consapevole, e che non vi chiede di muovervi da casa per vedere l’ennesima opera noiosetta e pretenziosa: http://www.whlr.blogspot.it/2011/11/elevator-view-whitney-museum-24022010.html

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