09 febbraio 2013

Macao, che macello!

 
Due sgomberi all'attivo. 69.300 ore di lavoro spese dai volontari. E un film, Open, in fase di realizzazione. Dopo alcuni mesi di silenzio, in cui i media non si sono occupati più di Macao, siamo andati a vedere come stanno le cose. Incontrando alcuni responsabili, Emanuele, Camilla ed Emanuela, per capire cosa stanno realizzando e se è cambiato qualcosa dal periodo più caldo. Ecco la loro versione dei fatti

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Il 5 maggio, con l’occupazione della Torre Galfa, nasce ufficialmente Macao. Come siete arrivati alla scelta di questo spazio e alla formazione del gruppo?

Emanuele: «Era da un anno che come Lavoratori dell’arte, un collettivo assembleare molto aperto, portavamo avanti un dibattito pubblico in ambito milanese. La partecipazione era veramente allargata, dai curatori ai veri e propri addetti ai lavori, giornalisti, artisti, operatori del cinema, con assemblee pubbliche in diversi spazi della città dove si discuteva sul mondo della produzione culturale e sulle sue dinamiche. Quell’esperienza si è poi conclusa con l’occupazione del PAC di Milano, che ospitava la mostra-marchetta della Pixar, senza alcuna concezione di uno spazio pubblico vocato alla ricerca. Da tempo pensavamo a una grossa azione su Milano, per provocare un’onda d’urto evidente, forte. Un mese prima di occupare la Torre abbiamo prodotto una campagna virale sul web, lanciando il nome Macao come provocazione rispetto alle varie sigle museali, raccogliendo migliaia di suggestioni e proposte per questa nuove esperienza».

Una strategia di guerrilla marketing

Emanuele: «Sì, abbiamo creato un messaggio potente, che ha fatto in modo che il giorno dell’occupazione si radunasse velocemente più di migliaio di persone. Il passaparola ha reso possibile il resto».

Perché Torre Galfa?

Emanuele: «Quel palazzo, abbandonato, decaduto, quello scheletro è il simbolo di un sistema di logica produttiva che sfrutta la città per edificare e bruciare territorio. Occupare quello spazio significava autocostruire un’attività sulle ceneri di quel tipo di meccanismo».

Lo sgombero era chiaro fin da subito, non avevate messo in conto questa possibilità? Pensavate a una netta presa di posizione dell’amministrazione comunale nella difesa della vostra occupazione?

Emanuele: «Non abbiamo mai avuto contatti con l’amministrazione comunale, né appoggi politici di alcun tipo. Pensiamo che la proprietà pubblica e privata, soprattutto se mal gestita, debba essere amministrata direttamente dai cittadini. Sta poi all’amministrazione pubblica decidere il proprio ruolo rispetto a queste esperienze».

Avete puntato su Palazzo Citterio, simbolo con Brera 2 del fallimento della politica culturale milanese e statale, e successivamente, dopo l’ennesimo sgombero, avete deciso di occupare lo spazio dell’ex macello, dove siete operativi tuttora. Se inizialmente l’occupazione era “una provocazione, uno stimolo, un monito”, cos’è diventata successivamente?

Emanuele: «Abbiamo dimostrato che si possono fare tante cose senza il minimo supporto dell’amministrazione pubblica. L’occupazione, il prendersi cura di spazi, o il riuso di quelli lasciati a marcire è uno stato d’eccezione che lascia libertà allo sviluppo di un modello produttivo efficace, almeno nel nostro caso. Spostarsi a Palazzo Citterio ha voluto dire essere fedeli a un discorso iniziato in precedenza. La città è piena di sinergie del vuoto: Brera 2 rappresenta un altro esempio di inefficienza, simbolo dell’ennesimo ladrocinio; non c’è solo Ligresti con cui prendersela».

Perché non vi hanno ancora allontanato da via Molise?

Emanuele: «Credo per l’autorevolezza acquisita. Abbiamo avuto due interrogazioni parlamentari. La prima promossa da noi, tramite un senatore, nei confronti del Ministro Cancellieri, per lo sgombero dalla Torre Galfa, la seconda per opera di Riccardo De Corato. In questo caso il Governo ha preferito prendere tempo, sottolineando il grande appoggio del mondo della cultura che Macao ha ottenuto in breve tempo».

Un vostro tweet recitava Macao saluta l’Oca e spicca il volo. Perché avete abbandonato il dialogo con il Comune di Milano, se c’è mai stato veramente, e la sua proposta culturale?

Emanuele: «Non c’è mai stato un contatto diretto con il Comune. Abbiamo rifiutato la mezza proposta velata di regalarci le Officine Ansaldo principalmente perché non volevamo rimanere chiusi in uno spazio per l’arte: la nostra volontà era di reinventarsi in un rapporto di forza con chi la città la sta costruendo veramente. Vogliamo che l’arte diventi un agente di trasformazione del reale, non ci interessa avere un atelier chiuso per esporre opere».

Non sono riusciti a “gestirvi”, in un certo senso a sfruttare il vostro entusiasmo

Emanuele: «L’amministrazione pubblica ha sempre reagito in modo anomalo, soprattutto a Milano: da una parte riconosce le tue istanze e dall’altro vorrebbe che riproducessi le stesse in un altro modo, il loro. L’entusiasmo riprodotto in vitro, con bando pubblico, non funziona».

Cos’è Macao veramente? In cosa siete differenti dal Leoncavallo, dai circoli Arci, piuttosto che da realtà come Zam (Zona Autonoma Milano), cap 20151.

Emanuele: «Siamo nati da una riflessione che cercava fin da subito di reinventare nuove dinamiche di movimento. Il nostro intento è quello di rimanere trasversali, non identitari, restando nell’ambito del circuito culturale, per essere un’alternativa vera agli spazi consueti del mondo della cultura. Bisogna cancellare l’idea che l’arte debba essere ospitata solamente in white cube, anche per questo collaboriamo con artisti che criticano questo tipo di sistema».

Pisapia aveva promesso attenzione ai giovani. Se non guardiamo solamente alle mostre istituzionali, Palazzo Reale in testa, mi sembra che ci stiano provando: all’ex Ansaldo, con Oca; hanno dato spazio ai writers con diversi progetti; qualcosa sembra muoversi anche alla Fabbrica del Vapore. Cosa ne pensate della politica culturale milanese?

Emanuele: «Ti rispondo con uno slogan: l’arte e la cultura non si amministrano ma si lasciano vivere. Il problema della cultura sta più nei processi di soggettivizzazione degli artisti o degli operatori di quel mondo piuttosto che nelle mancanze dell’amministrazione pubblica. Bisogna riuscire a capire come realizzare le proprie idee, superando il sistema della produzione. Il ruolo di chi amministra dovrebbe essere quello di riconoscere ciò che sta succedendo, che si sta creando, senza reprimerlo».

Qual è il futuro di Macao? Siete pronti a un nuovo sgombero? Pensate a una regolarizzazione?

Emanuele: «Sinceramente ci auguriamo non ci siano nuovi sgomberi. Nella giornata di lavoro Città costituente, in collaborazione con diversi movimenti e associazioni, abbiamo prodotto uno strumento giuridico che legittimi pratiche occupazionali come la nostra. Si tratta di un’autoregolamentazione che un gruppo realizza per un dato spazio pubblico, un parco o un edificio. Lo spazio rimane pubblico, aperto a tutti, ma dato in gestione al gruppo che lo frequenta».

La proposta è stata già presentata? Con quale riscontro?

Emanuele: «La proposta è stata fatta pubblicamente e sappiamo essere stata acquisita nei contenuti da chi di dovere. Ma con l’aria che tira in vista delle prossime elezioni politiche, nessuno vuole esporsi direttamente».

Il problema della riconversione degli spazi in disuso è centrale a Milano dove enormi edifici abbandonati si contano in ogni angolo della città. La mancanza di una politica incisiva su questi temi può liberalizzare l’occupazione degli spazi?

Camilla: «Non credo che le due cosa vadano di pari passo. Percorsi come il nostro, nati in modo autonomo, hanno la necessità di rimanere tali, indipendenti. La nostra occupazione era data dalla necessità di segnalare delle emergenze. Spesso chi amministra ragiona in un’ottica manageriale, svendendo e concedendo edifici pubblici per avere un partenariato forte. Noi proponiamo una partecipazione attiva dei cittadini per la presa in gestione di questi spazi, senza l’apporto di grandi cordate economiche».

State realizzando un film autoprodotto, Open, e ospitate una mostra d’arte contemporanea del gruppo Voina che è stato all’ultima Biennale di Berlino. Come trovate i finanziamenti per autoprodurvi e come gestite la programmazione?

Camilla: «Open è un grande progetto portato avanti dal gruppo che si occupa di cinema, è una produzione collettiva con l’intento di realizzare un vero e proprio film autoprodotto. La mostra del gruppo Voina invece è stata realizzata da S.a.l.e. docks di Venezia ed ora è ospitata, integrata con nuovi video, nei nostri spazi. In questo caso non c’erano costi di produzione. In generale, i progetti proposti sono valutati nella fattibilità economica e autofinanziati dal gruppo stesso. Per Open, invece, le attrezzature sono date in prestito gratuito da vari collaboratori, una sorta di messa in comune dei mezzi di produzione. Spesso le serate che organizziamo servono per finanziare i progetti, ma dobbiamo sicuramente interrogarci su come creare un’economia di sussistenza alternativa».

Chi frequenta Macao?

Emanuele: «Abbiamo realizzato un’inchiesta interna a Macao per capire chi erano le persone che si erano mobilitate. I risultati parlano di oltre 70 per cento di operatori culturali; di questi un 30-35 per cento ha uno stipendio sotto la soglia della povertà, 300 euro al mese per intenderci, mentre un altro 30 per cento sopra i 2000 euro. Quello che ci stupisce è questo divario netto che si è creato, mettendo in evidenza la mancanza di un precariato intermedio, con introiti intorno agli 800 euro al mese.

69.300 ore, è il titolo emblematico di questa inchiesta e rappresenta il totale delle ore spese attivamente da queste persone all’interno di Macao. Rispetto al campione analizzato, sul quale sono stati racconti i dati, significa che ogni individuo ha maturato 34 ore settimanali di lavoro qui, oltre a quelle impiegate nel proprio settore».

Avete avviato numerosi progetti. Quali di questi sono stati concretamente realizzati e quanti invece sono stati abbandonati?

Emanuele: «Nessun progetto si è estinto, per lo più si sono evoluti nel tempo, specializzandosi come per Arte della cura, dove si è indagato il rapporto tra arte e follia. Il tavolo comunicazione si sta occupando tuttora della comunicazione interna al movimento. Stiamo sviluppando anche un progetto legato al giornalismo, una scuola popolare, e altri legati al cinema e al video. I tavoli ci servono per concretizzare iniziative che poi vengono approfondite grazie alla collaborazione di tutti».

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