25 febbraio 2013

Donna faber

 
Nella pratica artistica contemporanea si registra un ritorno al lavoro manuale. Specie nell'altra metà del cielo, biologicamente e storicamente più vicina al corpo e al fare. E forse in questa ripresa della "pratica come attitudine artistica" agisce la distanza da alcuni eccessi concettuali. Anche se, come hanno insegnato i grandi, da Leonardo a Brunelleschi, è nella tecnica e nella manipolazione, che si origina un nuovo pensiero

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Nel dizionario “Homo Faber” indica “l’uomo come artefice, capace di creare, costruire, trasformare l’ambiente e la realtà in cui vive, adattandoli ai suoi bisogni”. Homo Faber è anche il titolo di un famoso romanzo scritto nel 1957 dallo svizzero Max Frisch. Il protagonista è Walter Faber, un ingegnere meccanico di successo che ha una visione del mondo tecnica e utilitaristica. Questa però va sbriciolandosi allorché Faber, nel giro di pochi mesi, è costretto a confrontarsi con eventi imprevisti e fatidici che cambiano radicalmente la sua esistenza. Nella letteratura esoterica ci sono stati raffinati filosofi, come l’armeno George Ivanovic Gurdjieff, che hanno preso in esame questo tipo umano relegandolo al rango di uomo-meccanico. Secondo Hannah Arendt, l’Homo Faber è il contrappunto dell’Homo Sapiens: il primo rappresenta la tecnica e il fare pratico materiale, mentre il secondo è il pensatore che scandaglia con il pensiero astratto la sfera intellettuale dell’esistenza. Sviluppando il pensiero del suo “maestro” Heidegger, per la Arendt la modernità, come epoca meccanicistica e produttiva del fare, si apre proprio con l’affermazione dell’homo faber, successivamente sostituito dalla figura, decisamente più tragica, dell’animal laborans, schiavo dell’attuale società consumistica e dei suoi desideri indotti.

Ma come si pone nell’attuale società contemporanea l’artista, un essere che per sua natura racchiude in sé le due anime distinte del faber e del sapiens? Una mostra al Castello Sforzesco di Milano dal titolo “Homo Faber, il ritorno del fare nell’arte contemporanea” ha cercato di fare il punto sull’importanza della riappropriazione da parte degli artisti del “fare” come espressione massima di creatività contrapposta quindi alla pratica “mentale” del concettuale che dal secondo dopoguerra ha privilegiato l’idea rispetto alla pratica. Il dualismo fra manualità e ideazione, che è da sempre al centro del dibattito artistico, in questi tempi di crisi economica e morale ha preso, soprattutto nei lavori degli artisti più giovani, un’interessante svolta verso la pratica del fare.

Nel panorama artistico contemporaneo brillano per “manualità” alcune artiste che, letteralmente “sporcandosi le mani”, hanno riportato la centralità del fare all’interno della loro ricerca, con tutta la fatica e il coinvolgimento fisico che comporta l’azione. E non è un caso che proprio le donne si siano riappropriate del fare manuale, azione che da sempre appartiene all’universo femminile.

La svedese Nathalie Djurberg lavora con la “clay animation”, crea delle figurine di plastilina con cui dà vita a dei filmati di animazione colorati e brutali. Il suo rapporto con la materia è intenso e totalizzante e, attraverso questo linguaggio infantile e apparentemente ingenuo, mette a nudo i lati oscuri della natura umana ovvero le perversioni, le paure e i tabù che regolano la nostra vita. La bolognese Sissi invece si rapporta attraverso la sua fisicità con il mondo esterno, il suo corpo come involucro di universi interni più vasti e fantastici è il metro per misurare una realtà che indaga con l’azione fisica della performance. L’artista, nella sua ultima personale alla Fondazione Volume! di Roma, ha tappezzato le pareti della galleria con un “horror vacui” di grandi disegni per raccontare la sua personalissima visione di un’anatomia umana rivista con gli occhi della mente ma realizzata con la fatica fisica del lavoro manuale.

Alighiero Boetti, uno dei più interessanti ed estrosi interpreti dell’Arte Povera, ha coinvolto il labor femminile per eccellenza, il ricamo, nel suo lavoro realizzato a Peshwar dalle donne afgane, mappe e arazzi tessuti a mano per esprimere la sua visione artistica e concettuale del mondo. Ludovica Gioscia, giovanissima italiana trapiantata a Londra, non solo è essa stessa l’emblema fashion-policromatico del suo lavoro che consiste in grandi “décollages” realizzati con innumerevoli strati di carta da parati da lei ideata, disegnata, attaccata e strappata in cui il gesto è la conseguenza di un pensiero che affonda le sue radici nella non velata critica all’ossessione per la bellezza e la perfezione estetica che la società da sempre impone alle donne. Ed ecco che il rapporto con la materia diventa coinvolgente, avvolgente e carnale e l’artista produce l’opera manipolando la materia con l’intervento fisico diretto, con la fatica del labor come un parto. Un’altra artista classe 1980, Eugenia Vanni, si spinge in quel territorio multiforme e fisicamente impegnativo che è la scultura in cui le immagini mentali vengono trasformate in reali: «la mia idea è quella di catturare un’immagine mentale. Ho realizzato a mano questa percezione in cui quello che mi interessa è il passaggio del colpo d’occhio. Metto a frutto le mie capacità per rappresentare e concretizzare queste forme mentali». Più classicamente il duo artistico Bertozzi e Casoni utilizza una tecnica antica e ormai da anni caduta in disgrazia: la ceramica, trasformandola in iperrealistiche visioni in bilico fra kitsch e genialità creativa con una sbalorditiva capacità tecnica.

La tecnica intesa come “τέχνη” (téchne) è un concetto che risale all’antica Grecia, in origine la parola veniva usata per indicare una prerogativa specifica degli dèi che ne faranno dono agli uomini per sopperire alla loro debolezza. Le divinità possedevano le tecniche come qualità intrinseche che erano a loro sostanziali, come Efesto che possedeva il dono di saper forgiare i metalli o Athena dea della matematica e delle arti, ed erano quindi demiurgiche ovvero creatrici. Chi possiede la conoscenza tecnica crea. Gli artisti che fino al Rinascimento venivano considerati alla stregua degli artigiani, cominciano a elevare il loro status, e ad essere considerati socialmente alla pari dei letterati, dei poeti e poi dei nobili, quando si impadroniscono nuovamente delle tecniche scientifiche matematiche, fisiologiche, geometriche che gli permettono di indagare i segreti della materia e del corpo umano e quindi di creare. Brunelleschi può innalzare a Firenze una cupola grandiosa in soli sedici anni (dal 1420 al 1436) grazie alla téchne matematica e geometrica. Leonardo e Michelangelo, in virtù dello studio assiduo del corpo umano e la vivisezione dei cadaveri, creano con il marmo e i pennelli figure umane meravigliose e perfette.

Il fare manuale quindi si libera dal dominio della forza bruta, operaia, per diventare summa di quelle conoscenze da “iniziati” necessarie per la creazione. E l’artista contemporaneo oggi si riappropria del suo ruolo di faber, di demiurgo in possesso delle tecniche con cui indaga il mondo con gli occhi dello scienziato e la visionarietà del creatore. L’opera d’arte contemporanea nel suo farsi, trascende però sempre la materia di cui è fatta per diventare dispositivo sensoriale, uno status necessario per trasportarci in quell’altrove che è il mondo in cui nascono le idee che con la tecnica del lavoro manuale, con il coinvolgimento attivo e talvolta sensuale delle mani e del corpo, si materializzano in opere.

*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 82. Te l’eri perso? Abbonati!

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