22 marzo 2013

Parola di curatore

 
di Gianluca D'Incà Levis

La Fine del Confine è un viaggio performativo di Stefano Cagol che, partito dall'Italia, traccia una linea di luce simbolica attraverso otto nazioni, arrivando fino a 300 Km oltre il Circolo Polare. Le prime due tappe sono state concepite insieme a Dolomiti Contemporanee. Ora l'artista è giunto a Kinkenes e sparerà il proprio raggio nella Biennale di Barents. Gianluca D’Incà Levis ci racconta come è nata l’idea del travalicamento

di

La Diga del Vajont è parso da subito il luogo ideale da cui partire. Luogo quasi totalmente chiuso e segno del dramma accaduto qui nel 1963, quando perirono quasi 2mila persone, che non può essere superato facilmente. Qui la storia si è fermata, la Tragedia ha impedito a questi luoghi di possedere e sviluppare un’identità indipendente da quel fatto. Il 2013 è l’anno in cui si celebrano i 50 anni dal Disastro. E il Nuovo Spazio espositivo di Casso si trova poco sopra alla diga: da questo Spazio è necessario non guardare solo alla diga, ma anche opporsi ad essa.
Uno dei motivi per cui abbiamo accettato di riaprire lo Spazio, e di impegnarci a trovare le risorse per renderlo permanente per farne un Centro per la Cultura Contemporanea della Montagna, è costituito da questa prossimità. Lo Spazio non ci interessa per il fatto che, trovandosi vicino alla diga, garantisce una visibilità automatica (effettivamente non è garantita) ma, perché sia possibile, è necessario compiere un lavoro di “bonifica culturale” di quest’area. Generare nuove immagini, serve a questo: a rifiutare una sentenza definitiva, secondo la quale l’identità di questi luoghi dovrebbe soggiacere, per sempre, a quel tragico evento, che in tal modo avrebbe chiuso tutto. 
Se si crede che l’arte possa e debba aprire, e che generare immagini nuove non sia una pratica ornamentale o d’intrattenimento, questo è un luogo in cui ha senso lavorare. Un luogo molto delicato e difficile, dal quale abbiamo intenzione di parlare di molto altro che non siano la Diga e la Tragedia, che porta qui 200mila visitatori ogni anno. Noi vorremmo che queste persone vedessero anche altre cose, e immagini, e ci prepariamo a generarle, con tutta l’aggressività (culturale) necessaria che occorre per opporsi all’inerzia. La Memoria è importante, ma ad essa non deve essere consentito di cannibalizzare la vita. 
In questo quadro, il raggio di luce di La Fine del Confine (della Mente), titolo stesso del questo lavoro, assume un valore simbolico molto forte, la cui opportunità, e tempestività, ci sono parse da subito evidenti.
Stefano Cagol e Dolomiti Contemporanee si sono trovati nel luogo giusto, al momento giusto, a condividere una serie di pensieri estremamente compatibili. Pensieri volti al superamento, all’apertura di nuove prospettive, ed al rifiuto di chiusura, rassegnazione, stereotipo. 
Quando, la scorsa estate, abbiamo conosciuto Cagol, la sua partecipazione alla Triennale di Norvegia era già stabilita. L’artista è venuto a trovarci nel Blocco di Taibon e al Nuovo Spazio di Casso, i due fulcri della stagione 2012. In questi due siti, diversi per condizione e storia, attraverso l’attività espositiva, le reti di soggetti partecipanti, l’integrazione di network differenti, le Residenze, si è creato un flusso, si sono aperti degli spazi chiusi, dando loro una nuovo fisionomia, e fisiologia, e rendendoli significativi rispetto al loro contesto, che non li possedeva più.
Su questi spazi, Dolomiti Contemporanee opera in modo pragmatico, l’attività che si produce in DC non è solo espositiva. Si tratta piuttosto di una piattaforma culturale che struttura un progetto logico ed organico attraverso un’architettura sistematica, proponendo un modello aggressivamente rivitalizzatore, dove l’arte non è strumentale, ma funzionale all’attecchimento di una strategia rinnovativa, parte integrante di un modello che vuole scardinare e trasformare alcuni concetti retorici. 
A livello basilare, i concetti di utilità, opportunità, vengono in una certa misura ribaltati. Alcune pratiche convenzionali d’azione e gestione delle risorse sul territorio, risultano ottuse, sterili, nocive. I modelli creativi, ideativi, rinnovativi, se ben progettati e adeguatamente sostenuti, sono utili e forniscono impulsi concreti. Se le fabbriche, i siti “critici”, vengono riaperti dalla cultura e dall’arte, queste dimostrano di poter essere strumenti produttivi, e non pratiche marginali, residuali, decorative. 
Farlo con l’arte è significativo. Non si raggiungono, in questo progetto, risultati artistici ed extrartistici separatamente. La parola “artistico”, isolata da un contesto di progetto, non ha senso, per noi. Costruire delle buone mostre è importante, ma produrre, attraverso l’arte, stimoli e impulsi concreti per il territorio, è altrettanto importante. L’integrazione delle funzioni genera una rete pervasiva, che prende corpo, si radica e si espande sul territorio, con ricadute e feedback a livello socio-culturale, produttivo, economico. Quest’atteggiamento inclusivo è un’altra evidenza di quel carattere generale di “rifiuto della chiusura” che informa ogni aspetto del progetto. I saperi, le azioni, gli ambiti, non sono separati, né separabili, allorché si intenda avviare delle buone pratiche, che non siano delle isole intellettuali, cioè degli inutili confinamenti di risorse. Le iconografie stereotipe, sono nocive, non servono al territorio: è necessario generare immagini nuove, immagini visive, di senso. Le opere artistiche, sono azioni pragmatiche. Un fascio di luce proiettato oltre un Confine, non è né performance illuminotecnica, né metafora astratta: è un modo per agire fisicamente sul territorio ed i suoi significati. 
Gianluca D’Incà Levis 
curatore di Dolomiti Contemporanee, direttore del Nuovo Spazio di Casso

1 commento

  1. il pezzo pubblicato da Exibart è una riduzione di un testo più ampio, che riportiamo qui per completezza:

    1. La Fine del Confine (della Mente)

    La Fine del Confine è un viaggio performativo, sconfinamento esplorativo e progetto mobile di public art di Stefano Cagol, che parte dall’Italia per arrivare alla Triennale di Norvegia.
    Le prime due tappe di questo percorso (Casso, 5 marzo, Tofana di Rozes, 6 marzo: qui il video), sono state concepite insieme a Dolomiti Contemporanee.
    Le Dolomiti, friulane e bellunesi, sono il punto d’origine da cui si è lanciata la serie dei travalicamenti, fisici e mentali.

    La Diga del Vajont è parso da subito il luogo ideale da cui partire.
    Un luogo quasi totalmente chiuso: un dramma delle proporzioni di quello accaduto qui nel 1963, quando perirono quasi 2.000 persone, non può essere superato facilmente. Qui la storia si è fermata, la Tragedia ha impedito a questi luoghi di possedere e sviluppare un’identità indipendente da quel fatto.
    Il 2013 è l’anno in cui si celebrano i 50 anni dal Disastro.
    E il Nuovo Spazio espositivo di Casso si trova poco sopra alla Diga: dalla passerella che dalla copertura si proetta verso il Monte Toc, essa è ben visibile.
    Credo che da questo Spazio, sia necessario non guardare solo alla Diga. In qualche modo, questo Spazio vuol opporsi alla Diga.
    Uno dei motivi per cui abbiamo accettato di riaprire lo Spazio, e di impegnarci a trovare le risorse per renderlo permanente, per farne un Centro per la Cultura Contemporanea della Montagna, è costituito da questa prossimità.
    Questo Spazio non ci è interessato per il fatto che, trovandosi vicino alla Diga, esso garantisce una visibilità automatica, che effettivamente non è garantita.
    Ci interessa invece perchè riteniamo che a partire da qui sia possibile, e necessario, compiere un lavoro di “bonifica culturale” per quest’area.
    Generare nuove immagini, serve a questo: a rifiutare una sentenza definitiva, secondo la quale l’identità di questi luoghi dovrebbe soggiacere, per sempre, a quel tragico evento, che in tal modo avrebbe chiuso tutto. Secondo la quale nessuna nuova immagine potrà mai venire, qui, a sovrapporsi a quella del gigantesco monumento di cemento, che come una lapide grava su questa terra, che solo per esso è nota, e sui suoi abitanti.
    Se si crede che l’arte possa e debba aprire, e che generare immagini nuove non sia una pratica esornativa o d’intrattenimento, questo è un luogo in cui ha senso lavorare. Un luogo molto delicato e difficile, dal quale abbiamo intenzione di parlare di molto altro che non siano la Diga e la Tragedia.
    La Tragedia è diventata una sorta di terribile spettacolo mediatico e un’industria turistica. Ogni anno, più di 200.000 persone giungono sin qui, per vederla. Noi vorremmo che queste persone vedessero anche delle altre cose, e immagini, e ci prepariamo a generarle, con tutta l’aggressività (culturale) necessaria per che occorre per opporsi all’inerzia. La Memoria è importante, ma ad essa non deve essere consentito di cannibalizzare la vita. Per quanto in un luogo come questo ciò possa essere difficile, la vita non potrà mai esser lasciata coincidere con una pratica, paralizzante, di sola Memoria.
    Il questo quadro, il raggio di luce di La Fine del Confine (della Mente), il titolo stesso di questo lavoro, assumono un valore simbolico molto forte, la cui opportunità, e tempestività, ci son parse da subito evidenti.
    Stefano Cagol e DC si sono trovati nel luogo giusto, al momento giusto, a condividere una serie di pensieri estrememente compatibili. Questi pensieri, sono, in generale, volti al superamento, ovvero all’apertura di nuove prospettive, ed al rifiuto di chiusura, stagnazione, rassegnazione, stereotipo.

    2. DC: un modello d’aperture attraverso l’arte
    Quando, la scorsa estate, abbiamo conosciuto Cagol, la sua partecipazione alla Triennale di Norvegia era già stabilita.
    L’artista è venuto a trovarci nel Blocco di Taibon e al Nuovo Spazio di Casso, i due fulcri della stagione 2012.
    in questi due siti, diversi per condizione e storia, in realtà si è fatta la stessa cosa. Attraverso l’attività espositiva, le diverse reti di soggetti partecipanti, l’integrazione di network differenti, le Residenze, si è creato un flusso, si sono aperti degli spazi chiusi, dando loro una nuovo fisionomia, e fisiologia, e rendendoli significativi rispetto al loro contesto, che non li possedeva più, non li vedeva più.
    Su questi spazi, DC opera in modo pragmatico: essi rappresentano in realtà un’idea estroversa, più che un fatto compiuto.
    Sono le incarnazioni fisiche di un’idea e di una forte volontà di apertura, focalizzazione, rifunzionalizzazione. L’attività che si produce in DC non è solo l’attività espositiva. Si tratta piuttosto di una piattaforma culturale che struttura un progetto logico ed organico attraverso un’architettura sistematica, proponendo un modello aggressivemente rivitalizzatore. Esso si esplica attraverso la programmazione degli eventi, e le arti visive. In ciò l’arte non è strumentale, ma funzionale all’attecchimento di una strategia rinnovativa.
    L’arte non viene strumentalizzata dal progetto culturale, al fine di produrre piacevolezza estetica. Essa è parte integrante di un modello che vuole scardinare e trasformare alcuni concetti retorici. The End of the Border è un esempio di questo approccio, che l’artista ha condiviso pienamente.

    Ad un livello basico, si può dir così: i concetti di utilità, opportunità, vengono in una certa misura ribaltati. Alcune pratiche convenzionali d’azione e gestione delle risorse sul territorio, risultano ottuse, sterili, nocive. I modelli creativi, ideativi, rinnovativi, se ben progettati e adeguatamente sostenuit, sono utili, e forniscono impulsi concreti. Se le fabbriche, i siti “critici”, vengono riaperti dalla cultura e dall’arte, queste dimostrano di poter essere strumenti produttivi, e non pratiche marginali, residuali, decorative.
    Farlo con l’arte è significativo. Non si raggiungono, in questo progetto, risultati artistici, ed extrartistici, separatemente. Non vi è segregazione d’ambiti. Forse la parola artistico, isolata da un contesto di progetto, non ha senso, per noi. Costruire delle buone mostre è importante. Riuscire a produrre, attraverso l’arte, stimoli e impulsi concreti per il territorio, ad esempio, consentendo il riavviamento di fabbriche abbandonate, è altrettanto importante. Che sia un ragionamento culturale ed artistico a produrre questi risultati, è una delle specificità di DC. Questo modello è originale. L’integrazione delle funzioni genera una rete pervasiva, che prende corpo e si radica e si espande sul territorio, con ricadute e feedback a livello socio-culturale, produttivo, economico. Quest’atteggiamento inclusivo, è un’altra evidenza di quel carattere generale di “rifiuto della chiusura” che abbiamo detto, e che informa ogni aspetto del progetto. I saperi, le azioni, gli ambiti, non sono separati, né separabili, allorchè si intenda avviare delle buone pratiche, che non siano delle isole intellettuali, cioè degli inutili confinamenti di risorse. Le iconografie stereotipe, sono nocive, non servono al territorio: è necessario generare immagini nuove, immagini visive, immagini di senso. Le opere artistiche, sono azioni pragmatiche. Un fascio di luce proiettato oltre un Confine, non è né performance illuminotecnica, né metafora astratta: è un modo per agire fisicamente sul territorio ed i suoi significati.

    Gianluca D’Incà Levis, curatore di Dolomiti Contemporanee, direttore del Nuovo Spazio di Casso

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