02 aprile 2013

Speciale Biennale/Parlano gli artisti del Padiglione Italia

 
Quinto appuntamento con Venezia. Questa volta è Michela Casavola ad intervistare Luca Vitone. Che dice la sua sul sistema Biennale e il progetto Vice Versa di Pietromarchi

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Parliamo della prossima Biennale di Venezia: è la prima volta che partecipi?
«Questo è il mio terzo invito ricevuto, non considerando la partecipazione al progetto Oreste della Biennale di Szeeman del ’99. Il primo invito è stato nel 2003 per la mostra “Stazione Utopia”. Credo che quella fu veramente una bella mostra di carattere movimentista, politicamente parlando. Il lavoro consisteva in una grande bandiera nera con ruota rossa appesa ad un albero. Ricordo che le opere erano molto vicine le une alle altre, con il risultato di una collettiva ricca ma anche molto affollata. Ero contento di partecipare ma non era proprio quello che mi sarei aspettato da un invito alla Biennale. Avrei voluto realizzare un lavoro inedito, visivamente importante, capace di identificare la mia ricerca in maniera forte e determinante. Il secondo invito è stato nel 2011 alla Biennale di Sgarbi, ma ho dovuto a mio malgrado rifiutarlo perché non ero d’accordo sul progetto. Adesso posso ritenermi finalmente soddisfatto di partecipare al Padiglione Italiano curato da Bartolomeo Pietromarchi, che stimo molto e con il quale ho lavorato più volte, con tante affinità e visioni comuni riguardo l’arte e al mondo che ci circonda. Spero che questo padiglione riuscirà ad essere, come credo che sarà, eticamente molto importante, soprattutto dopo la precedente esperienza. Ci vuole un segno forte che non ci faccia cadere in quel luogo comune un po’ populista di una certa italianità che pervade la lettura estera nei nostri confronti. Abbiamo una grande responsabilità di lavorare seriamente e bene, per questo mi auguro di fare qualcosa che abbia veramente un senso».
Possiamo dire che Sgarbi, allargando le partecipazioni in maniera così spropositata, ha in un certo senso sconsacrato un avvenimento così importante?
«Il termine sconsacrato non credo che si possa utilizzare, non è esatto. Sconsacrare un luogo, a seconda  dell’ideologia, può avere anche una sua funzione importante. Preferirei che del Padiglione Italia dell’ultima Biennale di Venezia non se ne parlasse più. Concentriamoci su quella che verrà».
Per questa Biennale come e quando sei stato contattato? Sapevi il nome di altri partecipanti?
«Ho saputo della partecipazione di alcuni artisti, emersi da conversazioni con Pietromarchi solo pochi giorni prima di vedere lo spazio e casualmente ho incontrato a Venezia proprio uno di loro. Ho preso visione dello spazio all’inizio di dicembre, penso che un progetto così importante avrebbe bisogno di tempi lavorativi più lunghi. Sono stato invitato in autunno inoltrato, questo non per demerito di Pietromarchi (al quale gli è stata confermata la direzione del Padiglione il 10 ottobre). Parliamo della Biennale di Venezia un avvenimento importantissimo a livello mondiale».
Cosa ne pensi delle polemiche sul budget e della possibilità di raccogliere fondi ulteriori?
«Andare alla Biennale è una responsabilità personale e collettiva. Se faccio una brutta figura io, la fa anche il curatore e il Padiglione Italia. Sarebbe opportuno che si potesse ufficializzare le direzioni un po’ prima in maniera da poter parlare apertamente anche con dei finanziatori, visto che comunque i soldi a disposizione non sono mai sufficienti. I 600mila euro per il Padiglione non so in che modo vengano ripartiti. So che il budget che dovrebbe coprire tutte le spese del mio lavoro (ospitalità, viaggio, trasporto, assicurazione, collaboratori, produzione) non basta. Se si avesse più tempo, si potrebbero ottenere maggiori finanziamenti. Molti sponsor ti dicono di no, oppure se vogliono aiutarti ti danno poco rispetto ad una sponsorizzazione annuale programmata tempo prima. Se il curatore venisse deciso durante l’anno precedente si potrebbe lavorare meglio anche con i sovvenzionamenti e gli sponsor, evitando inutili affanni».
Pietromarchi struttura la mostra mettendo in dialogo gli artisti. Prima di decidere gli abbinamenti vi ha coinvolto, oppure ha progettato tutto autonomamente?
«No, ha scelto in completa autonomia. D’altronde siamo invitati sempre a convivere con qualcuno essendo “animali sociali”.  Fortunatamente io ho la possibilità di realizzare un progetto inedito e intenso che identifica il mio lavoro con la metratura spaziale giusta: la mia stanza è di circa 300 metri quadri. È anche vero che c’è Luigi Ghirri con un progetto fortissimo che mi circonda, ma il dialogo non è claustrofobico! Non so bene come sono le altre sale. La mia sala l’ha scelta Pietromarchi e mi è andata bene perché il fatto che sia la sala di entrata mi gratifica, dovendo dare il benvenuto al pubblico che entrerà nel Padiglione italiano. Tutto sommato questo obbligo al dialogo lo viviamo quotidianamente, se vogliamo una società aperta e conviviale dobbiamo pensare che la nostra libertà sia imprescindibile da quella altrui. Inoltre dipende molto da chi ti viene accostato, se è un artista che con cui hai delle affinità allora può addirittura nascere un lavoro a quattro mani. Gli invitati, sono quasi tutti artisti che con Pietromarchi hanno già lavorato e che lui conosce bene. So che ci saranno sei sale interne e che due artisti esporranno all’esterno».

Sei contento di essere stato accomunato a Ghirri?

«Nel progetto del Padiglione italiano, Pietromarchi parla di Italia e di italianità, Ghirri ha un ruolo centrale oggi per il lavoro svolto tra gli anni Settanta e gli Ottanta. La nostra Italia negli anni Ottanta, caratterizzata da un ritorno all’ordine estetico ed etico molto forte, era legata prettamente alla pittura. Le ricerche pittoriche erano dominanti sulla scena, onnipresenti sia nelle riviste che nelle mostre, anche se c’erano ricerche non pittoriche “in sordina”, sostenute da pochi. Altrove invece, per esempio nei Paesi anglosassoni, c’erano percorsi paralleli molto forti ideologicamente. Ghirri è stato un rappresentante di uno sguardo diverso sull’Italia. Se penso al dialogo con lui, non mi trovo a disagio. Pietromarchi ha scelto un lavoro importante di Ghirri, relativo ad un periodo intermedio della sua produzione. Mi fa piacere entrare in dialogo con la sua opera, un maestro che purtroppo non ho mai conosciuto e che non mi è nemmeno così affine sul piano del linguaggio. A differenza di Ghiri, uso la fotografia solo come mezzo utile ad esprimere un concetto, come una protesi realista, un mezzo diretto per esprimere un’idea del paesaggio. I due lavori affronteranno la tematica comune dell’Italia. Questo dialogo non mi dispiace. È un nuovo stimolo ad un ulteriore piano di lettura della mia opera. Per me è fondamentale lavorare in maniera completamente aniconica, visto che la fotografia è proprio l’icona per eccellenza, la riproposta del reale. Vorrei lavorare su un fronte opposto, sempre mantenendo lo sguardo sul paesaggio e sull’italianità. Ho trovato in questo dialogo l’occasione per un passaggio ulteriore nel percorso monocromatico».

Tra i quattro “grandi” dell’arte con chi avresti voluto dialogare? Penso alle “Mappe mentali” di Baruchello per esempio, così effimere e monocrome e ci vedrei un bellissimo dialogo con il tuo ultimo lavoro realizzato al Museion.
«Dei quattro artisti più anziani, Paolini per me è stato veramente un maestro e il dialogo con lui mi metterebbe a disagio. Quando ero un ventenne, tra gli artisti dell’Arte Povera è stato il primo ad affascinarmi ed è stato il primo in quegli anni Ottanta italiani, caratterizzati dall’irruenza transavanguardista, a darmi degli importanti impulsi concettuali. Con tutto il rispetto che ho per Baruchello, che è sicuramente più sognatore di me, essendo con le mie mappe più realista, e per Ghirri col quale sono in dialogo, avrei con molto piacere dialogato con l’opera di Fabio Mauri che tra i quattro è quello che, personalmente, ho conosciuto meglio, e con cui mi sono soffermato spesso a chiacchierare. Con lui condivido l’interpretazione politica e sociale dell’opera: siamo partiti da un monocromo, lui con uno schermo ed io invece con le mie cartine “invisibili”, per arrivare a certe visioni politiche della società».
Come vedi la grande macchina espositiva della Biennale in un luogo così complicato come Venezia?
«L’uomo è fatto per lamentarsi e Venezia ti offre molte possibilità per farlo, resta comunque un gioco divertente! Si rischia rispondendo a questa domanda di cadere in luoghi comuni, per certi aspetti è molto suggestiva, molto difficile e può non piacere. Non so quanto in Italia si sia compreso che la Biennale è un avvenimento importante a livello mondiale e che ha tantissime potenzialità. È la prima e la più importante Biennale d’arte, coinvolge tutto il mondo ed è in un luogo tra i più desiderati al mondo».

Cosa pensi della mostra internazionale ovvero del “Palazzo Enciclopedico” di Massimiliano Gioni?
«Non so quasi niente della mostra internazionale, il tema è molto aperto, e come tutti i progetti che sono molto aperti possono avere risvolti positivi ma anche negativi. Gioni è un bravo curatore, un professionista serio, quindi questa Biennale si prospetta molto interessante e spero che lo sia anche per il nostro Paese, può essere l’occasione di dare un segno forte, anche al cospetto della stampa e del pubblico internazionale».
Nel nostro mondo globalizzato, fino a che punto si può ancora parlare di una ricerca nazionale? Ha senso oggi parlare di artisti italiani piuttosto che francesi o americani o sarebbe meglio racchiuderli nei confini di un linguaggio comune che a mio avviso diventa nei casi più estremi quasi una maniera?
«In questa Biennale partecipo anche ad un altro padiglione, quello Latino Americano. Credo nel dialogo e nell’apertura, non credo nella nazionalità ma credo ad una terra comune, un Genius loci che sottolinei un’attitudine o formi un pensiero. Ci possono essere dei modi di operare che non sono compresi entro i confini di una nazione, linguaggi veicolabili al di la di un confine. Non mi interessa il punto di vista nazionalistico. Far parte di un paese è inevitabile: soprattutto essere consapevoli della propria lingua e della propria cultura. Non a caso ho focalizzato molto il mio lavoro sull’italianità e ho iniziato a lavorare sulla musica popolare scegliendo quella popolare italiana perché indubbiamente mi è più facile la comprensione. Forse il fatto di vivere all’estero dà la possibilità di guardare, come in un volo d’uccello, la propria italianità dall’esterno, permettendo maggiormente di ragionare e sviluppare un pensiero sulla propria radice».
Credi di poter essere agevolato nel dover dialogare con un’opera “conclusa” visto che l’artista non è vivente?
«Posso risponderti solo con una battuta: per lavorare con un artista che non è più in vita innanzitutto bisogna essere sensitivi, perché non sempre quando si congiungono le mani la seduta spiritica funziona, spero che questo non sarà il mio caso!»

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