12 giugno 2015

Le zone d’ombra del linguaggio fotografico

 
La fotografia è lo strumento ottimale per raccontare il conflitto? Sì, ma con una certa ambiguità. Scopriamone il perché al Photomonth Festival 2015 di Cracovia

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Che cos’è un conflitto? Uno stato fisico o mentale – oppure entrambi – che dà forma alle varianti di dolore, calamità, impotenza? Ragionandoci intorno, si ha la possibilità di sconfinare in uno scenario incredibilmente complesso, talvolta persino teatrale, senza nulla togliere alla veridicità dell’intenzione. In questa panoramica, certamente il mezzo generalmente considerato come il più idoneo per la registrazione del reale – la fotografia – mostra però parecchi punti deboli. 
Porsi domande che sondano le zone d’ombra del linguaggio fotografico, è l’obiettivo perseguito da Wojciech Nowicki, curatore del programma principale di Krakow Photomonth Festival 2015 (14 maggio-14 giugno 2015), che con il Fotofestiwal di Łódź (di cui è partner) è il principale evento dedicato alla fotografia in Polonia. Conflict è il tema di questa sua XIII edizione che, organizzata dalla Foundation for Visual Arts, con il supporto dell’amministrazione locale e del Griffin Art Space, è diretta da Agnieszka Olszewska, coadiuvata dal comitato di cui fa parte lo stesso Nowicki, critico, curatore, giornalista e scrittore, nonché co-fondatore della fondazione per la fotografia Imago Mundi. Il Photomonth ha anche una sezione Off e il circuito Krakow Photo Fringe che si avvale della collaborazione con la Lablab Foundation. 
In una piccola città come Cracovia – bella ed elegante con il suo portamento da vecchia signora un po’ austera – dove, benché esista un museo della fotografia (Muzeum Historii Fotografii) non c’è neanche una galleria commerciale dedicata alla fotografia, poter contare su questo appuntamento annuale di risonanza internazionale, permette ad un pubblico eterogeneo di confrontarsi con i diversi aspetti della fotografia, anche attraverso gli incontri con gli autori, le letture portfolio e l’ambito premio Griffin Art Space.
Right Next Door (foto Manuela De Leonardis)

«Spesso i conflitti non sono solo scontri armati – spiega Wojciech Nowicki – si giocano magari nella fantasia di qualcuno, e consistono in gesti, o anche ricordi, difficili da catturare. Può una fotografia documentare pienamente le situazioni di conflitto, a prescindere dalla loro natura, senza il supporto di un altro mezzo, come la parola scritta, che sia didascalia o testo, oppure il film?».
Quanto, poi, alle immagini della sofferenza – direttamente correlate con il tema del conflitto – è proprio Susan Sontag a mettere in guardia rispetto al loro uso. «Una cosa è soffrire, un’altra vivere con le immagini fotografate della sofferenza, che non rafforzano necessariamente la coscienza o la capacità di avere compassione», scrive la scrittrice statunitense nel saggio-vademecum Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società. «Possono anche corromperle. Una volta che si sono viste queste immagini, si è imboccata una strada che porta a vederne altre, e altre ancora. Le immagini paralizzano. Le immagini anestetizzano».
Sontag come Flaubert, Kafka, Conrad, Proust ed altri ancora, è tra gli scrittori presenti nella sezione “Conflict: Literature” nel catalogo del Krakow Photomonth Festival 2015, una pubblicazione che sottolinea il dialogo serrato tra parola e sguardo, che trova riscontro anche nell’attenzione che la rassegna dedica al libro fotografico, ampliando l’orizzonte della fotografia stessa attraverso la continuità del “semplice” scatto all’interno di un discorso meno ristretto. 
Track-22 (foto Manuela De Leonardis)

A Cracovia sono due le mostre dedicate a questo tema, una con cui viene esplorato il concetto di appropriazione dal punto di vista socio-politico del fiume Vistola, simbolo nazionale del Paese con Vistula: With and Against the Tide of Propaganda alla Nuremberg House (curata da Łukasz Gorczyca e Adam Mazur), l’altra focalizzata sui paradossi della rappresentazione dei conflitti contemporanei con TRACK-2. Photography Books on Conflicts al Bunkier Sztuki (curata da Markus Schaden, direttore del PhotoBookMuseum di Colonia, nonché curatore della Sezione Sperimentale del Photomonth). Dalla Namibia al Cile, dalla Turchia all’Ucraina, da Israele al Canada i punti nevralgici della Terra, più o meno radicati nella memoria collettiva, suggeriscono riflessioni basate sul confronto, sul passaggio del tempo, ma anche sulla quotidianità. Yaacov Israel in Legitimacy of Landscape, ad esempio, analizza la controversa questione politica dei confini tra gli insediamenti israeliani e i villaggi palestinesi, mentre Frederic Lezmi in #Taksim Calling giustappone cartoline d’epoca della piazza di Istanbul con immagini che ha scattato con l’iPhone durante la protesta del 2013 di Gezi Park. Tracce più sotterranee attraversano il lavoro di Larry Towell, che dopo esser stato testimone di catastrofi naturali e guerre civili in ogni parte del globo ha rivolto lo sguardo sulle sue stesse radici, tornando in The World from my Front Porch al proprio album di famiglia con vecchie foto scattate nella proprietà appartenuta ai suoi avi nella Contea di Lambton nell’Ohio. 
Right Next Door, a cura di Wojciech Nowicki (Courtesy Photomonth Krakow Festival)

L’intimità familiare è presente anche nel progetto Frowst (First Book Award nel 2014), esposto nelle sale del Museo Etnografico, della giovane fotografa polacca Joanna Piotrowska, che si è ispirata al metodo delle Costellazioni Familiari del filosofo tedesco Bert Hellinger. L’uso del bianco e nero sollecita una dimensione di sospensione: nelle foto di Piotrowska tutto appare equilibrato – le forme dei corpi, la loro relazione con lo spazio domestico – ma le dinamiche si concretizzano in una tensione che preme per essere esplicita e costante. Emozioni controverse trovano una possibile decodificazione in quello scatto che inquadra due coppie di mani, una maschile e l’altra femminile, che si afferrano con violenza lasciando immaginare una declinazione di variabili. 
Più volte torna a fotografare le mani anche Josef Koudelka nella celebre serie sull’invasione di Praga delle truppe del Patto di Varsavia – Invasion Prague 68 – presentata alla Starmach Gallery, nello spazio che in passato è stata una casa di preghiera ebraica costruita in stile neo-romanico nel 1879-81. Il fotografo ceco ha catturato sguardi attoniti in quelle lunghe giornate calde dell’agosto 1968, che avrebbero segnato il corso della storia. La rabbia cresce nei suoi circa 250 scatti in bianco e nero, procedendo parallelamente all’avanzata dei carri armati. La consapevolezza di essere nel posto giusto al momento giusto non basta però ad attutire il sentimento d’impotenza di chi sta dietro il mirino. Con queste foto uscite clandestinamente dal Paese e pubblicate da Magnum, inizialmente solo con le iniziali PP (Prague photographer) per proteggere l’autore e la sua famiglia da prevedibili ritorsioni Koudelka – allora giovane fotografo che aveva abbandonato la carriera d’ingegnere per seguire la sua vocazione di fotografo-antropologo attento al sociale (dal ’61 inizia a fotografare gli zingari con la vecchia Rolleiflex) – viene insignito con la Robert Capa Gold Medal. 
Josef Koudelka, Prague Invasion Warsaw Pact troops. In front of the Radio Headquarters. Prague, Czechoslovakia. August 1968 © Josef Koudelka Magnum Photos

Diversamente da queste immagini esplicite, Wojciech Nowicki selezionando un nucleo di foto del 1916 che fanno parte della collezione del Museo Etnografico (un fondo di circa 1200 fotografie provenienti dal Deutsches Ausland-Institut di Stoccarda) costruisce la mostra Right Next Door. Proprio accanto – come suggerisce il titolo – ai luoghi di conflitto sono state scattate immagini che inquadrano i gesti quotidiani in Polonia, all’epoca stato-satellite degli imperi Austro-Ungarico e tedesco. Bambini, vagabondi, campagne, mercati, ma anche le case del quartiere ebraico e la vecchia sinagoga di Cracovia (Stara Synagoga) sono oggetto d’interesse etnografico per i numerosi fotografi tedeschi, tra loro Hager, Schultz, Signe, Mohl, Behmcke, Friederichech. Per il curatore si tratta di una visione estetica che riflette un certo tipo di censura vittoriana: nel suo testo cita come immagine emblematica la celebre foto di Roger Fenton La valle dell’ombra della morte (1955), che, spedito in Crimea per documentare la guerra, più che fotografare i corpi straziati, rappresenta la morte allegoricamente come una vallata inanimata di cui la traccia tangibile della battaglia è nelle palle di cannone (probabilmente messe da lui davanti all’obiettivo per sottolineare il concetto) parte di uno scenario desolante.      
L’assenza nella rappresentazione della guerra diventa, quindi, un motivo a sé. Diversamente l’artista cinese Zhang Dali in A Second History (a cura di Wu Hang), esposta nel modernissimo Manggha Museum of Japanese Art and Technology, propone un’accurata ricerca sulla manipolazione dell’immagine intorno alla figura di Mao Tse-tung. Recuperando e mettendo a confronto documenti originali e versioni successive, l’autore che lavora dal 2003 intorno alla tematica della propaganda, svela falsi storici che spesso fanno sorridere quando, ad esempio, vediamo il leader cinese diventare operaio, contadino o pastore: l’idealizzazione porta ad una “pulizia” dell’immagine ben più grave quando, di volta in volta, scompaiono personaggi ritenuti scomodi dal partito.  
Indre Serpytyte, 1944-1991 (Courtesy Photomonth Krakow Festival)

Di manipolazione parla anche Paweł Szypulski in Foreign Body al Bunkier Sztuki affrontando argomenti come la rappresentazione di razza e genere nei diversi settori della fotografia, dal reportage alla moda. La raffigurazione umana è completamente assente, infine, nel lavoro della fotografa inglese di origine lituana Indrė Šerpytytė 1944-1991, ospitato negli spazi del MOCAK (Museo di Arte Contemporanea di Cracovia): un viaggo nella storia della Lituania sotto l’occupazione sovietica. La memoria per la fotografa è un argomento che affronta parallelamente con una chiave diversa. Fotografa dall’esterno tutti i luoghi di detenzione e tortura in cui molti dissidenti lituani hanno perso la vita, ma benché ne documenti l’esistenza attaccando le foto (correlate da descrizione minuta) sui suoi taccuini, ne prende successivamente distanza, isolando le architetture con un bianco e nero spiazzante e facendole diventare quasi innocui modellini. Il colore  torna nelle foto che inquadrano la verdissima vegetazione dei boschi: anche in Forest Brothers c’è traccia di una profonda ambiguità. La natura, motivo centrale della serie, non è né romantica né idilliaca – o meglio può tornare ad esserlo – ma è anche il luogo della storia e del mito.

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