03 agosto 2016

A TEATRO/I FESTIVAL

 
Si è chiusa da pochi giorni la 36esima edizione di Drodesera. Ecco quello che è successo
di Giulia Alonzo

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Drodesera lavora da tempo sul rinnovamento del modello tradizionale del festival. Non a caso quest’anno ad inaugurare “World Breaker”, titolo della 36esima edizione, è stato chiamato l’artista Luigi Presicce che ha proposto una performance ispirata al ciclo di opere di Piero della Francesca Storia della Vera Croce. Oltre alla performance,  una serie di video è rimasta in proiezione per tutta la durata della programmazione, dando la possibilità di visionare l’intero ciclo di lavoro dell’artista pugliese. 
“World Breaker” evidenzia la scelta di registi e artisti capaci di rompere gli schemi con lavori concreti che toccano le corde del reale, rappresentazioni del contemporaneo attraverso un gesto altrettanto attuale, che dimostrano come l’arte sia ancora manifesto e specchio degli spasmi di un’epoca.  
Mara Oscar Cassiani con #Ed3n riflette sulla nostra necessità di relax: il concetto di pausa è ormai un ritaglio di tempo da inserire in agenda, una condizione da vivere obbligatoriamente. Annamaria Aimone e Mara Cassiani trascinano lo spettatore in un quarto d’ora mistico che dimostra come la forma e l’esercizio fisico siano assoggettati al bisogno di apparire ed essere accettati, e come il relax forzato sia ansia da prestazione mascherata. 
Luigi Presicce, vista della mostra
In una realtà-sogno ci conduce anche Philippe Quesne con i Vivarium Studio con La Mélancole des Dragons: in un paesaggio innevato, sette rockers vagamente vintage incontrano Isabelle, la loro Biancaneve, da accudire e far divertire, creando per lei mondi e storie.  
Con una poetica delicata e surreale il regista e autore francese, sempre più presente nel panorama festivaliero italiano, svela i meccanismi nascosti del teatro ricordando costantemente quanto esista un mondo reale fuori dalla rappresentazione e come questa diventi mera istantanea e macchietta fatta di stereotipi da smontare e ricostruire. 
La realtà è spesso troppo complessa per poter essere esaurita nella durata di uno spettacolo e in qualche battuta di un drammaturgo, e il teatro svela i propri “trucchi” per avvicinarsi allo spettatore e abbattere il muro della finzione. Ogni storia diventa possibile creazione di un’idea, lunga giusto il tempo della messa in scena. 
Mohamed El Khatib
Ma ci sono casi nei quali la rappresentazione tocca e supera il reale. 
Mohamed El Khatib aveva immaginato come sarebbero stati gli ultimi attimi di vita della madre malata di cancro. A Beautiful Ending è la confessione, il racconto intimo di un rimpianto per la fine forse non ancora accettata o forse la testimonianza della difficile e dolorosa consapevolezza del distacco. Solo in scena, con le luci accese in sala, El Kathib ci narra la sua esperienza di perdita: si spazia nel tempo, quella della morte è la data fondamentale dalla quale si è accompagnati avanti e indietro, scoprendo piano piano tutta la malattia e oltre, fino al funerale e al lutto. 
Una storia troppo reale ed emozione troppo condivisa per non sentirsi in imbarazzo durante la narrazione, ma il linguaggio cinico e schietto, e al tempo stesso profondamente sincero, trasforma il distacco da El Kathib in proiezione per un avvenimento che accomuna tutti. Il regista franco marocchino trasforma un’esperienza individuale in esperienza condivisa, e il proprio dolore in una rappresentazione di esigenza collettiva.
Rabih Mroué
Anche Riding on a Cloud del regista e performer libanese Rabih Mroué parte da una esperienza individuale per raccontare il dramma di una nazione in guerra. Perché è importante narrare la storia di un ragazzo amante della musica che esce di casa e viene centrato in testa da un cecchino? Mroué chiede al fratello Yasser di raccontare la sua storia di bersaglio. E lui lo fa: solo in scena seduto a una scrivania e provvisto di uno stereo e di un videoregistratore, mostra, uno dietro l’altro, i filmati caricati nei cd che prende da una pila ben ordinata, capitoli della propria vita che si svelano al suo tocco del pulsante play, da ascoltare come una fiaba. E piano piano si arriva in fondo, senza mai capire il limite che separa la finzione dalla realtà, ma con la sensazione di essere parte di una storia sbagliata, ingiusta e incomprensibile. 
Roland Barthes parlava di “effetto realtà”, trovare il dettaglio che conferma la veridicità della narrazione. La crisi della rappresentazione necessita sempre più di questi dettagli, per sentire concretamente l’essere parte di una comunità, ancora in grado di provare emozioni non mediate da metafore e dispositivi. E il teatro, o l’arte, abbattono il distacco facendo sentire ancora l’esigenza della rappresentazione come proiezione del mondo. 
Giulia Alonzo

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