21 ottobre 2016

Bob Dylan sarà presente alla cerimonia per l’apertura del Grande Traforo Marziano

 

di

La luce naturale, filtrando dalle
ampie finestre del Museo di Capodimonte, devia pacatamente sui toni di un
grigio sempre più tenue, fino a scomparire, assorbita dalla superficie
informale del Grande Cretto Nero. La maggior parte delle persone intervenute
alla presentazione della riapertura della sezione di arte contemporanea, gravita
nel campo d’attrazione magnetica generato dall’opera di Alberto Burri, emblema
della collezione della Reggia e di un certo rapporto con la materia che,
storicizzato, esprime serenità e rassicurazioni. L’aria è pacata, voci e passi
si intonano sui decibel più appropriati, le tinte dei vestiti e le
articolazioni anatomiche si integrano creando una composizione di colori e
forme perfettamente equilibrata, come in una Grand Jatte collezione estate
2016. Siamo a metà luglio ma il caldo non è eccessivo, il vento muove
timidamente le foglie degli alberi del parco regale, che proiettano screziature
di verde nel terso medium atmosferico. Niente lascia presagire il fulmine che
saetta improvvisamente quando Lucio chiede, molto cortesemente, la mia opinione
su quale possa essere il romanzo contemporaneo per eccellenza. Mi si mozza il
respiro, cerco uno spunto nelle bollicine sfuggenti dal calice che ho in mano,
nei titoli nascosti nei recessi più profondi di tutti e due gli emisferi. Me ne
esco balbettando qualcosa su Cortázar, mordendomi subito la lingua. Un
intreccio di filamenti opachi mi confonde la vista, mentre tento di spostare il
discorso su argomenti più tranquillizzanti, sulla tridimensionalità della Vasca, sull’eruzione del Vesuvius

Il Cretto Nero di Alberto Burri, al Museo di Capodimonte

Non ricordo precisamente cosa sia
successo dopo ma la questione, ormai, aveva iniziato a scavare il suo cunicolo che,
al termine di un lavoro sotto traccia durato alcuni mesi, si è rivelato del
diametro di un traforo adatto a estrarre il nucleo solido di Marte. E alla cerimonia
di inaugurazione di questa colossale infrastruttura extraterrestre, è
intervenuto proprio lui, il Menestrello. Bob Dylan è stato insignito del Nobel
e la scelta non solo è stata argomento di discussioni, come da tradizione, ma
ha anche acceso una spia rossa nella camera di controllo della letteratura. La
reazione immediata è stata di stupore, per un’assegnazione che a qualcuno deve
essere sembrata fuori ambito. Infatti, per Baricco, «è come se dessero un
Grammy a Javier Marías perché c’è una bella musicalità nella sua narrativa. Se
seguiamo questo ragionamento allora anche gli architetti potrebbero essere
considerati poeti». Aspettando ritorsioni dagli architetti e repliche dallo
scrittore spagnolo, divertente anche il commento di Irwine Welsh che, nel suo
stile colorito, ha descritto la giuria come un manipolo di vecchi hippies
rimbambiti e con problemi alla prostata, glissando però su altre motivazioni
meno corporali e più teoriche. In tutto ciò, l’Accademia di Stoccolma,
l’Istituzione che, per volere di Alfred Nobel, si occupa specificamente
dell’assegnazione del più importante premio letterario, non è ancora riuscita a
contattare il cantautore che solo ieri ha segnalato suo sito ufficiale la
notizia. Dalla Svezia saranno partite decine di telefonate, tutte cadute in un
angoscioso silenzio degno della migliore trilogia bergmaniana, ma si spera
nella sua presenza alla cerimonia, prevista per il 10 dicembre. «Non sono
preoccupata, penso che si presenterà – ha detto Sara Danius, segretaria
permanente dell’Accademia – se non vuole venire, non verrà, sarà comunque una
grande festa». Se, malauguratamente per le tautologie dell’Accademia, Dylan non
volesse essere presente alla serata di premiazione, sarebbe il quarto della
breve lista, dopo Boris Pasternak e Jean-Paul Sartre, per la letteratura, e Lê
Đức Thọ, per la pace.

Un giovanissimo Bob Dylan

Sulla vicenda dello scrittore
russo c’è anche l’ombra di un intrigo internazionale. Pare che sia stata la CIA
a mandare in stampa la prima versione russa del Dottor Zivago, un atto
fondamentale per l’assegnazione del premio, visto che il comitato può prendere
in considerazione solo opere pubblicate in lingua originale. Dopo aver
impiegato dieci anni per la stesura, dal 1946 al 1956, Pasternak non riuscì a
trovare un editore, in tutta la Russia, disposto alla pubblicazione. Preso atto
dell’aperta ostilità degli ambienti culturali e politici, Pasternak tentò altre
strade e consegnò una copia al giornalista Sergio D’Angelo, a Mosca per cercare
un nuovo filone di letteratura russa, per conto di un giovane editore italiano,
Giangiacomo Feltrinelli. A questo punto, la notizia del libro e, soprattutto,
dell’ostilità del governo russo, arrivò alle affilate orecchie della CIA che,
in maniera piuttosto avventurosa – si racconta di un aereo costretto a uno
scalo a Malta, di una valigia aperta, di una cartella ritrovata, di fotografie
scattate a certe pagine scritte in fitti caratteri cirillici – riuscì a
procurarsi una copia. Nel novembre del 1957, il romanzo venne pubblicato in
italiano, quindi tradotto in inglese, francese, tedesco. Nella primavera del
1958, Albert Camus nominò Pasternak per il Premio Nobel e, immediatamente,
comparve una versione in lingua russa, stampata presso la casa editrice
accademica di Muton, a L’Aja, senza diritto d’autore. Ma, per non mettere in
pericolo se stesso e la famiglia, Pasternak non si recò a Stoccolma a ritirare
il Nobel. L’eco della notizia fu enorme. A metà Guerra Fredda, CIA 1 – KGB 0.

Wolf Vostell, B-52, 1968

Tornando al Nobel della discordia,
il dado con la faccia spigolosa di Robert Allen Zimmerman è ormai tratto ma
l’esito non è così catastrofico per gli scrittori tout court. In fondo, il
premio tanto ambito si assegna ogni anno e, al di là delle dietrologie, le
scelte possono essere dettate dai fattori più impensabili, Pasternak docet.
Inoltre, Dylan aveva già ottenuto altre candidature, la prima nel 1996, poi
anche nel 1997 – l’anno in cui venne ricoverato d’urgenza per una infezione al
cuore che poteva risultargli fatale – quando pare che Dario Fo, altro massimo
esperto di vocalità, riuscì a superarlo solo al fotofinish. A parte le
motivazioni di gusto personale, si può ricercare qualche indicazione spostando
l’attenzione dagli stili agli strumenti e inquadrando la scelta nella
successione storica delle assegnazioni.

Quali conformazioni può assumere
un romanzo contemporaneo? E’ una domanda che i membri della giuria del Nobel
evidenziano con la penna rossa. E c’è sempre stato qualcuno un pizzico più
contemporaneo, nell’uso degli strumenti a sua disposizione. Da Omero, che
sicuramente avrebbe vinto per aver portato al massimo grado di espressione lo
strumento delle onde sonore, fino a Dostoevskij, un alchimista degli
ingredienti del racconto moderno e delle potenzialità della stampa. Lo
scrittore russo, peraltro, era perfettamente padrone anche della serialità, con
L’idiota, che uscì a puntate, dal
1868, sulla rivista “Russkij vestnik”. E, in fondo, oggi, si ripetono gli
identici moduli dei Karamazov, cambiando temi, argomenti, modi di dire ma
rimanendo nella struttura cristallizzata di quel tipo di pubblicazione, con
tutti i vincoli e le possibilità che tale forma impone allo svolgimento della
trama, alla descrizione dei personaggi, alle categorie della storia e dei caratteri.
Anche gli scrittori tradizionalmente considerati più all’avanguardia – De Lillo,
Roth, Ellis, Pynchon – parlano certamente una lingua contemporanea, però
espressa con codici e sviluppi non troppo dissimili da quelli ottocenteschi. Ma
le modalità di trasmissione della conoscenza seguono ormai altri canali,
percorrono le trasparenze dei social network, si diffondono negli spazi vuoti
tra le puntate delle serie tv più attese. Eppure, la letteratura sembra non
essersene accorta, come se qualcuno, illo tempore, avesse detto a Gutemberg: «Ma no,
questo trabiccolo non avrà mai successo».

I libri impossibili di Bruno Munari

Già il premio alla voce di Dario Fo,
alle narrazioni interstiziali di Alice Munro, autrice di racconti brevi e
brevissimi, alla polifonia stilistica di Svjatlana Aleksievič, cronista e
giornalista di guerra, sembravano segnali di qualcosa sull’orlo di un
cambiamento non avvenuto, non tanto sulla superficie della scrittura ma nella
profondità dell’approccio ai linguaggi. Con il Nobel a Dylan, l’Accademia di
Stoccolma ha dichiarato, tra le righe, che le cose si possono raccontare anche
attraverso un mezzo fluido come l’aria, riconoscendo, implicitamente,
l’aderenza di un tramite immateriale alla forma della contemporaneità, questi
anni dei caratteri mobili 2.0, dalla carta pregiata dei browser, della
leggerezza delle strutture grafiche virtuali, più simili a ritmi impalpabili
che a voluminosi tomi enciclopedici. Singolare che nessuno abbia ancora
pubblicato un romanzo non su Facebook ma attraverso di esso, interpretando il
potente social network tanto come mezzo espressivo quanto come categoria del
raccontare. Oppure, il romanzo già c’è ma si chiama in altri modi, è stato
pubblicato e i suoi capitoli continuano a essere scritti, a ogni scroll della
home page.

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