28 novembre 2016

Testimone per caso: L’Avana dopo Fidel

 
Donato Piccolo è nella capitale cubana per presentare la sua mostra. Ma la morte del Lider maximo ha bloccato tutto. Ecco come hanno reagito lui e la città a questa notizia epocale

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Ieri, domenica 27 novembre, Donato Piccolo doveva inaugurare una mostra al Centro de Desarollo de las Artes Visuales dell’Avana, intitolata “Unnatural” In occasione della 19° Settimana della Cultura Italiana a Cuba, doveva, insomma, presentare il suo lavoro che dalla scienza prende a prestito alcune modalità e visioni. Doveva, perché con la morte di Fidel Castro di mostra per ora non se ne parla. L’abbiamo raggiunto a Cuba e ci siamo fatti raccontare a caldo come la città (e lui) vive questo cruciale momento storico. 
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Puoi raccontarci anzitutto qual è l’atmosfera e lo stato d’animo dei cubani e qual è il tuo? Quando nel 2012 ero a La Habana per lavorare alla 11° Bienal de La Habana, uno dei momenti più emozionanti fu la festa del 1 maggio. Partecipai al corteo e alla manifestazione in Plaza de la Revoluciòn. Tutti gli abitanti erano coinvolti nella preparazione della manifestazione. Immagino che la situazione dal punto di vista emotivo oggi sia enormemente più forte.
«Oggi mi sono affacciato al balcone della casa dove mi trovo nella ciudad Vieja e non ho sentito le maracas che di solito sono la causa del mio risveglio, nè le urla dell’uomo del carretto che vende la guajava, niente musica latina e nemmeno il sole che cuoce senza pietà la strada. La signora che di solito mi prepara la colazione mi dice: “Fidel esta muerto!”. Io non capisco , me lo ripete due volte e poi si gira per non vedere il mio sguardo indagatore. Credo stia veramente male. Le generazioni del passato lo amavano. Fidel, ha dato loro speranza e possibilità di sopravvivere, credo. Ma la questione è molto piu complessa di quanto posso capire, credo, e la gente non ne parla facilmente. Allora cerco di pensare alla mia mostra, anche se tutti i musei de La Habana per rispetto per la “scomparsa di Fidel”, resteranno chiusi per lutto nazionale per 9 giorni. Mi domando se riuscirò a finire la mostra e ad inaugurarla. Una telefonata dell’Ambasciata italiana mi ha avvertito dell’impossibilità d’inaugurare domenica. Vorrei finire di allestire la mostra, che probabilmente alla fine vedrò solo io. Mi chiedo il senso di tutto questo e mi sembra d’intuire che l’evoluzione di un pensiero spesso non è sociale ma universale, nel senso che assorbe il mondo e lo rielabora in maniera differente da quelle che sono le nostre aspettative. Alla fine sono riuscito a farmi aprire il museo e a finire l’installazione per un pubblico inesistente. Credo che fare arte sia come un atto di preghiera, ognuno con la sua modalità in maniera silenziosa e personale. L’ultima notizia è che la mostra aprirà la prossima settimana e credo anche quella di Anish Kapoor alla Galleria Continua».

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Per la tua mostra hai lavorato con la direttrice del Centro Dayalis Gonzales Perdomo e con Jorge Fernandez Torres, direttore della Biennale e del Museo d’Arte Contemporanea de La Habana. Con quest’ultimo ho lavorato sia alla Biennale del 2012 che in occasione della prima edizione del Premio Maretti a Cuba nel 2013 e, conoscendo la natura del suo lavoro decisamente orientato sui rapporti tra arte e sociale e politica, immagino che la notizia della morte di Castro sia stata da lui vissuta con particolare emozione. Hai già avuto modo di parlarci?
«Di solito non mi piace parlare delle reazioni di altre persone forse perché non ne voglio condividere le emozioni. Ma Dayalis e Jorge sono persone di grande cultura, vera, e non sono condizionati dal sistema dell’arte e dalle minchiate varie che distolgono dal vero scopo per cui una persona decide di occuparsi di arte.  Dayalis ho avuto il piacere di averla come curatrice della mia mostra e con lei ho condiviso riflessioni ed utopie artistiche interessanti. Con Jorge ho avuto modo di conversare molte volte sull’evoluzione dei codici linguistici e le rivoluzioni del pensiero di fronte ad un ottimo piatto di ropa vieja. Ma non sono ancora riuscito a vederlo dopo la morte del Comandante». 
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Lavori da anni sul rapporto tra arte e scienza, tra natura e artificio, utilizzando anche concetti e tecnologie molto attuali e stimolando la riflessione sulle ricadute che hanno nel quotidiano. Ti trovi però in un Paese, che soprattutto per le conseguenze dell’embargo, non ha grande dimestichezza con le tecnologie. Come pensi che reagirà il pubblico cubano di fronte al tuo lavoro? Sperando che alla fine riesca a vedere la tua mostra.
«Qui ovviamente sono visto come un marziano, e vedendo la situazione del Paese è comprensibile. Siamo in un luogo dove tutto è introvabile. Se ora porto la barba non è perché mi sento più vicino allo spirito dei “barbudos”, ma banalmente perché non sono riuscito a trovare una lametta. È davvero difficile avere anche le cose più normali della nostra quotidianità. Le persone spacciano wifi per strada come fosse droga, mi sembra di essere in un romanzo di Ray Bradbury. Ti sto scrivendo da un computer cubano che sembra un nostro pc degli anni Ottanta, con i caratteri giganti e dove la punteggiatura della tastiera non corrisponde a quella del monitor. Un disastro, ma che sopporto volentieri perché Cuba è anche questo e forse lo sarà ancora per qualche tempo.Qui non hanno nulla, ma quel nulla è tanto, forse più di quello che possediamo noi. La cultura della proprietà è reale, nel senso che se uno ha qualcosa, lo possiede veramente. Hanno la dignità e la consapevolezza dell’Essere descritta nella “Lettera dell’immortalità” di De Dominicis: Avere può diventare Essere se in quell’Avere c’è la sua storia. Pensavo solo di allestire una mostra, ma in realtà il container che avrebbe dovuto portare le opere non è arrivato in tempo. Un classico, come ricordo che è capitato anche a te. Quindi ho dovuto rimboccarmi le maniche e preparare una nuova mostra con opere nuove in un tempo incredibilmente breve. Per fortuna c’è qui con me il mio editore Manfredi e ho avuto il prezioso supporto di Mario Mazzoli, il mio gallerista. Non meno importanti sono stati gli amici cubani che mi hanno aiutato a muovermi nella città: Elio, Wilay, Yaumara, Annina (e la mia compagnia di avventure Celia Noemi). Sono infatti andato per le strade e nelle case delle persone a cercare materiale elettrico e meccanico con i quali ho costruito strani oggetti capaci di alimentare campi magnetici generatori. Ho comprato un ciclotaxi per creare una struttura meccanica in movimento. Mi sono trovato a capire questo popolo attraverso le cose che hanno e che possono offrire, forse è un modo di vedere la loro cultura da un altro punto di vista, in un certo senso più intimistico, almeno per me».
Raffaele Gavarro

1 commento

  1. Bellissima testimonianza, bravo Donato, non ci deludi mai. Buon lavoro e buona Cuba, dagli un ultimo saluto al Comandante.

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