23 gennaio 2017

CURATORIAL PRACTICES

 
L’arte all’epoca della post democrazia. Intervista a Lanfranco Aceti
di Camilla Boemio

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Lanfranco Aceti è docente della Boston University, è artista ed è un curatore la cui ricerca interdisciplinare si concentra sulla intersezione tra video e cinema espanso, le arti digitali, la cultura visiva e le nuove tecnologie multimediali. I suoi poliedrici interessi si focalizzano, oltre che nell’arte contemporanea, negli studi curatoriali, i processi di ibridazione, le traduzioni tra i media classici e i new media e le loro applicazioni basate sulla pratica nelle arti inter-semiotiche. 
Nel tempo le pratiche curatoriali hanno sviluppato varie fasi, dalla prima nella quale l’attenzione era focalizzata sull’opera fino a realizzare progetti rilevanti e strumenti pratici per comprendere le storie e le situazioni articolate e politicizzate. Che cosa indica questa trasformazione? 
«Uno dei principali elementi è stato il cambiamento di prospettiva incentrato intorno all’idea del visitatore/partecipante. L’attività curatoriale si è focalizzata sull’interattività come forma di intrattenimento, troppo spesso superficiale e consumata velocemente. Con gli eventi socio-politici contemporanei si sta verificando un ritorno all’arte ‘impegnata’. Le pratiche curatoriali si stanno dedicando sempre di più all’arte che ha caratteristiche sociali, riscoprendo artisti che hanno lavorato nell’ombra per gli ultimi trenta anni ed hanno dimostrato di avere un interesse che va al di là di un engagement superficiale. Il problema per i curatori è valorizzare queste persone e non favorire coloro che si apprestano ad entrare in un’arena, quella dell’arte politica, soltanto perché ora è tornata di moda. L’etica diventerà la parte più importante, le pratiche curatoriali non coerenti e focalizzate sulla estetizzazione e la commercializzazione dell’arte politica non faranno altro che smascherare quei curatori e quegli artisti dai pochi scrupoli che finora non sono stati altro che cortigiani».
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Nel Settembre del 2011, hai curato ad Istanbul la 17ª edizione dell’International Symposium on Electronic Art (ISEA). Un macro evento all’interno del quale si sono seguite centinaia di proposte in formati diversi. Se da un lato l’aspetto accademico del simposio continuava a rimanere il fulcro dell’ISEA; dall’altro le numerose proposte quali i workshops, le proiezioni, gli eventi di networking all’interno di un hammam o sui traghetti, hanno fortemente caratterizzato l’edizione. Vuoi parlarcene?
«Quello fu un programma curatoriale molto ambizioso con mostre, eventi, performance, installazioni e proiezioni che facevano parte della Biennale di Istanbul e dell’ISEA2011. Come se non fosse abbastanza, il programma si svolse da Settembre fino a Dicembre con due mostre che avvennero anche in altre località. Il programma fu ambizioso con un catalogo dal titolo ‘Uncontainable’ che presentò una serie di opere nel campo dei nuovi media esposte in siti archeologici e altri spazi, sia pubblici che privati, creando un itinerario alternativo ma integrato nel percorso della biennale. Per la conferenza abbiamo avuto 1500 partecipanti e le riunioni sui traghetti che attraversarono il Bosforo hanno creato importanti possibilità di networking tra i visitatori». 
In un tuo testo hai scritto: «Non basta solo il valore della resistenza, oggi abbiamo bisogno di attaccare. Bisogna muovere il mondo delle arti, delle scienze e delle tecnologie con nuove sinergie e collaborazioni». Come si fa ad apportare dei reali cambiamenti?
«Il cambiamento in queste non-etiche e nelle post-democrazie illegali non è solo necessario; ma è un dovere civile. Gli Stati Uniti dove vivo, e la Gran Bretagna di cui sono cittadino, hanno dimostrato che il cambiamento col voto è possibile. I quattro cavalieri dell’apocalisse non sono apparsi in Gran Bretagna per metterla a ferro e fuoco, mentre negli Stati Uniti la vittoria dei repubblicani sta ridando sangue a un partito democratico che aveva abbandonato i suoi valori sociali. Il voto è una forma di cambiamento, come lo sono gli atti e le decisioni che prendiamo ogni giorno. Ho creato un mio museo – Museum of Contemporary Cuts – che collabora con una serie di istituzioni internazionali: dal Museum of Fine Arts di Boston al National Museum of Contemporary Art di Atene. I lavori che scelgo e rappresento nelle varie mostre e l’attività presentano discorsi e alternative estetiche all’arte contemporanea patrocinata dai grandi oligarchi europei e internazionali. Per me questo è il modo di registrate nella storia dell’arte pensieri e opere che altrimenti non troverebbero spazi di espressione».
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“THE SOCIAL” è stato Il titolo della 4th International Association for Visual Culture Biennial Conference (IAVC2016@Boston), da te curata, tenutesi alla Boston University. La Biennale è stata strutturata come una conferenza, con performances che trattavano lo sviluppo del tema dell’era della post-democrazia. Quali elementi sono emersi?
«Che avevo ragione a pensare che la rabbia che circola nelle classi medie e operaie a livello internazionale si sarebbe manifestata attraverso movimenti popolari di reazione alle post-democrazie, che sempre di più si stanno trasformando in delle pre-dittature. È dall’agosto del 2015 che ho dichiarato che Trump avrebbe vinto. Quando ho incominciato a preparare questa biennale, con la sua conferenza e le opere d’arte collegate negli spazi museali e pubblici, ero convinto che il concetto di società, come la partecipazione responsabile nelle strutture democratiche fossero scomparse. La conferenza non ha fatto nient’altro che confermare che viviamo in società le cui democrazie sono state trasformate in oligarchie corrotte e pronte a distruggere quel poco che resta dei processi democratici soltanto per assicurarsi la propria sopravvivenza. A questo punto credo che il ruolo dell’arte sia di ritrovare ispirazione in un’estetica che si rifaccia a opere e pratiche che hanno caratterizzato la protesta contro i regimi fascisti del ventesimo secolo».
L’Europa si trova in una fase di decadenza non solamente economica, ma soprattutto culturale. Come dovrebbe essere ristrutturato l’insegnamento della storia dell’arte e delle pratiche artistiche?
«Credo l’arte dovrebbe essere insegnata attraverso lo studio dell’estetica e della filosofia, in particolare della filosofia politica. Non credo sia possibile pensare che i nuovi media siano la panacea dell’umanità. La realtà sfortunatamente indica che il contesto culturale è fondamentale e inerente al modo in cui media e opere vengono utilizzate. Per me il ruolo dell’arte dovrebbe sempre essere quello di dare una visione: una interpretazione visiva della condizione umana che possa essere di guida e ispirazione a società intere. In questo senso penso a Guernica di Picasso o Bhopal Disaster Dow Chemical Hoax di The Yes Men».
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Chi può ignorare le riserve di Foucault, per le quali la fuga dallo stato di minorità non deve essere basata su una concezione di Umanesimo simile alla religione e alla morale (principi universali che egli non ha mai cessato di mettere in discussione)? Chi può rifiutare l’ingiunzione di fare della propria vita un’opera d’arte, soprattutto in senso collettivo?
«Il problema è che oggi non esiste più la possibilità di fare della propria vita un’opera d’arte, ma soltanto di creare un gesto finale. La disperazione che si sta propagando attraverso il corpo della società è qualcosa che non può essere ignorato, se non a proprio discapito. Nel 2015 ho diretto la pubblicazione di un volume accademico intitolato Cuts (Tagli) e il mio articolo The Cultural Body’s Death by a Thousand Cuts: Why Society Is No Longer a Body and Why It Can Be Cut to Pieces (La morte del corpo culturale attraverso migliaia di tagli: Perché la società non è più un corpo e perché può essere fatta a pezzi) affrontava il problema della scomparsa della collettività e della nascita, come conseguenza della post-democrazia, di nuovi post-cittadini che non devono più nulla né allo Stato né alle istituzioni. Oggi la condizione di minoranza e di povertà coincidono in un sistema in cui anche piccola e media borghesia si ritrovano a fare i conti con una mancanza di speranza che non lascia più spazio ai sogni, ma offre soltanto scelte drammatiche tra una vita miserabile da morti di fame e la vendetta. L’arte in questo senso diventa la visione di un collettivo – inteso come una parte del corpo intero della società – libero da moralità, falsa giustizia e obblighi civili. E pronto ad una secessione, a votare l’impensabile o alla violenza della vendetta».
Camilla Boemio

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