16 febbraio 2017

La mostra cinese di Kiefer fa ancora discutere. Tirando in ballo lo strapotere dei galleristi e l’importanza del pubblico

 

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Vi ricordate della mostra cinese di Anselm Kiefer alla Central Academy of Fine Arts (CAFA) di Pechino? Negli scorsi mesi intorno all’esposizione (87 pezzi in totale, con la curatela di Beate Reifenscheid, direttore del Museo Ludwig, insieme all’artista Wang Huangsheng, direttore del CAFA), si era scatenato il putiferio perché l’artista – vivo e vegeto – che ha sempre preso parte alle sue esposizioni in parte attiva, era stato escluso da qualsiasi decisione. 
Una questione così spinosa che anche le grandi gallerie che lavorano con lui (White Cube, Gagosian e Thaddaeus Ropac) hanno preso – ovviamente o no – le sue difese. 
Reifenscheid invece dichiara che si è trattato semplicemente di una chiusura perché le suddette gallerie volevano il controllo totale sul mercato asiatico, mentre in questo caso 80 pezzi arrivano dalla collezione di Maria Chen Tu, mentre altri sette appartengono a collezionisti privati ​​che hanno prestato le opere al Museo Ludwig di Colonia. 
«I curatori devono rispettare l’artista, ma anche essere in grado di lavorare a beneficio di un pubblico più ampio – ha detto Reifenscheid, che continua – Se tutti gli artisti e i loro mercanti fossero in grado di controllare quando, dove, e perché le loro opere vengono esposte dopo essere state vendute ne andrebbe di mezzo la fruizione del pubblico».
Dello stesso avviso anche lo scrittore e curatore Klaus Honnef: «Quasi tutti gli artisti importanti, cioè quelli con elevato potere commerciale come Kiefer, sono rappresentati da potenti mercanti d’arte, che proteggono i loro interessi finanziari. Questo è il vero sfondo dei problemi con la mostra al CAFA».
Ovviamente, di tutt’altro avviso, sono state le dichiarazioni di White Cube & Co.

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