24 maggio 2017

Art & Business

 
Che cosa significa “Cultural Corporate Responsability”? Puntare, oltre all’investimento, alla crescita della società
di Elena Di Giovanni

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Investire in ambito culturale sembra ormai un’attività che può essere data per scontata, in quanto c’è un consenso generalizzato sulla ricaduta positiva che tali scelte hanno in termini reputazionali e di impatto sociale. Si fa strada, non a caso, nel dibattito pubblico un concetto che necessità ancora di maggiore familiarizzazione come “Corporate Cultural Responsibility”. All’interno della gamma di attività che un’impresa mette normalmente in campo per garantire la sostenibilità ambientale e sociale delle proprie attività stanno infatti acquisendo sempre maggiore rilevanza quelle che si rivolgono in modo speciale alla cultura, intesa come elemento fondamentale del benessere sociale. Spesso concentriamo le nostre attenzioni sulle sacrosante esigenze di salvaguardia dell’ambiente, ormai entrate stabilmente tra le priorità di tutti gli attori economici, e rischiamo di mettere in secondo piano gli investimenti in un ambito che ha un impatto diretto sull’identità e la crescita della società: la cultura. 
Può un’azienda che vuole candidarsi a ricoprire un ruolo da protagonista nella crescita della società esimersi dall’impegnarsi in questo ambito? Se il miglioramento a cui ambisce a contribuire non è solo materiale e contingente, certamente no.
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In passato era pratica comune che grandi committenti, fossero essi istituzioni pubbliche o soggetti privati, decidessero di ingaggiare artisti di chiara fama per elaborare opere d’arte che dessero loro lustro e riconoscibilità sociale. Moltissimi dei capolavori che ammiriamo ancora oggi, dalle chiese agli sfarzosi palazzi reali, dagli enormi affreschi ai dipinti, sono il risultato della decisione di “investire in cultura” per rendere immortale il proprio nome o esaudire un desiderio personale. Oggi un’azienda non può certo ambire (e non dovrebbe puntare) ad asservire l’arte ai propri obiettivi di visibilità, ma piuttosto riservare una parte delle proprie risorse a ciò che c’è di più importante per lo sviluppo del contesto sociale in cui opera. Pensiamo per esempio ai musei, che sempre di più dedicano ampi spazi all’interno delle proprie strutture ai bambini e ai ragazzi. Non si tratta di una scelta casuale, ma piuttosto di un segno del desiderio di inclusione delle giovani generazioni che le istituzioni culturali ritengono ormai prioritario: la cultura non conosce età e ogni iniziativa culturale si presta, con gradi diversi e modulabili di accessibilità e comprensione, ad essere condivisa con tutti coloro che sono interessati ad avvicinarsi ad essa, anche i più giovani. Oggi tra l’altro, grazie al Ministro dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, Dario Franceschini, con l’introduzione dell’Art Bonus, le imprese che investono in cultura, possono godere di importanti detrazioni.
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L’espressione “Corporate Cultural Responsibility”, che completa ed allarga l’ambito di applicazione delle cosiddette attività di Corporate Social Responsibility, è molto utile in tal senso. Dedicare tempo, risorse e pianificazione alla cultura va ben oltre il concetto facilmente assimilabile di mecenatismo. È un investimento di lungo termine in un percorso di crescita delle nuove generazioni, sempre più disorientate perché messe a confronto con una dimensione sociale di difficile interpretazione e priva di punti di riferimento. La cultura come la immaginiamo noi, supportata con passione e lungimiranza dalle istituzioni e dai protagonisti della nostra economia, non ha una funzione solo pedagogica. Quello che mette a disposizione dei fruitori non è infatti un catalogo di virtù o un prontuario di comandamenti moralisteggianti, come spesso si tende erroneamente a credere. È piuttosto l’abitudine a interrogarsi sul proprio posto nel mondo e sulle linee guida che informano le nostre scelte quotidiane.
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Per questo, quando un’impresa decide di destinare una parte del proprio bilancio ad un settore strategico come la cultura, dovrebbe promuovere un’attenta riflessione interna per valorizzare al massimo questa scelta. Per esempio, riservando parte del proprio impegno anche ad iniziative temporanee e non riproducibili come i grandi festival o le performance. Niente in contrario alle grandi operazioni di restauro, ma senza dimenticare l’arte contemporanea, la danza o il teatro. Opportunità uniche per creare percorsi su misura che rispondono agli obiettivi dell’azienda e che racchiudono occasioni di ingaggio diretto e senza mediazioni dei propri stakeholder. La magia della performance e del palcoscenico risiede infatti nella difficile riproducibilità di ciò che avviene su di esso e nell’unicità di ciò che offre a chi si apre agli stimoli provenienti dalle storie che contribuisce a far mettere in scena. L’arte e la cultura come esperienza esclusiva e non ripetibile, come “dono” che va goduto fino in fondo “qui ed ora” per guardare con maggiore consapevolezza a ciò che ci circonda. Per un’impresa, un modo straordinario e unico di essere parte di una società che non smette di interrogarsi su sé stessa e sul proprio futuro. E che anziché l’ossessione per la visibilità di un determinato brand, è pronta a premiare quei soggetti che si impegnano attivamente per fornire risposte alle grandi domande del vivere quotidiano. 
Elena Di Giovanni
Vice Presidente di Comin & Partners e membro del CdA della Galleria Nazionale di Roma tw @elendigiovanni

Nela foto in alto: Akram Khan, Chotto Desh 9-15 577 dancer Dennis Alamanos per il Romaeuropa Festival 2017

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