06 luglio 2017

Uno scrigno per l’arte italiana

 
Si chiama Magazzino ma è un luogo di grande qualità. Sorge sulle rive dell’Hudson, nello stato di New York. Ma di scena c’è solo la nostra arte

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Giorgio e Nancy si sono incontrati quasi 30 anni fa. Italiano lui, figlio della Sardegna più profonda, vicino Iglesias, newyorkese lei. Con un passato di “start up” nei trasporti (si direbbe oggi): portava i ragazzi in bus da Amsterdam a Kathmandu, e poi nei computer e poi nella finanza, Giorgio Spanu. Ricca, un po’ hippy, con la passione per l’Europa e per l’arte, collezionista di Pop Art, Nancy Olnick. Si incontrano, si innamorano e la bella favola che vi stiamo per raccontare prende vita. Siamo agli inizi degli anni Novanta, «in Italia conosciamo una persona che ci aiuta molto, Sauro Bocchi. Avete voglia di conoscere l’arte? Andate a Rivoli, e poi ne riparliamo», racconta oggi Giorgio. Sauro Bocchi allora era (è scomparso quest’anno ed Exibart forse è stata l’unica testata a ricordarlo) un gallerista sui generis, persona sensibile soprattutto, colta, appartata, che in quella strana coppia italo-americana intuisce la “stoffa” del collezionista. Ma c’è ancora molto da fare e da studiare. E Rivoli, abbreviazione per il mondo dell’arte di Castello di Rivoli era, ed è tuttora, il più bel museo d’arte contemporanea che l’Italia ha e abbia mai avuto. Con una collezione non vastissima – circa 200 pezzi – ma di grande qualità e un allestimento che aiuta a capire quello che per molti appare come l’enigma dell’arte contemporanea. Perché a Rivoli le opere parlano, raccontano di loro e dell’artista, e del passato che gli sta dietro.
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Giovanni Anselmo Il panorama fin verso oltremare, 1996, granite and acrylic paint (Left); Alighiero Boetti, Mappa, 1983, embroidered tapestry (Right). Courtesy of Magazzino Italian Art, New York. Photograph by Marco Anelli © 2017.
Giorgio e Nancy vanno a Rivoli, e rimangono incantati. Scoprono l’Arte Povera, soprattutto attraverso le opere di Paolini di cui, specie Nancy, è come folgorata: «Da lui impariamo che l’arte è un processo, non qualcosa di definito e concluso». Cominciano a capire che cos’è l’arte contemporanea, se ne appassionano e non smettono più di amarla. 
Ora, dopo circa 25 anni da quel viaggio, «un momento magico, i primi anni del nostro amore», aggiunge con tenerezza Giorgio, lui e Nancy hanno realizzato quello che per loro era un sogno, che per tanti è uno splendido museo privato e che per me è anche un preciso impegno di politica culturale. Intelligente, lungimirante, prezioso e di rara qualità.   
Il 28 giugno a Cold Spring, nella valle dell’Hudson, dove, tra boschi di betulle e una vegetazione quasi incontaminata, il fiume che bagna New York disegna delle anse che a loro volta disegnano un paesaggio affascinante che non a caso ha fatto da sfondo alla scuola dell’Hudson Valley Painting, è nato ufficialmente Magazzino Italian Art, su disegno dell’architetto spagnolo Miguel Quismondo. All’apparenza un white cube, molto sobrio, squadrato, dove all’ego dell’architetto non è permesso di entrare, ma dove è benvenuta la luce naturale e ogni tanto si affacciano squarci del bel paesaggio intorno. Ma dove soprattutto lo spazio ha una qualità che non è quella asettica del white cube, perché si percepisce un qualcosa che avvicina alle opere, anziché relegarle nel mondo a parte, sacrale e controllato, come prescrive il white box. 
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Gilberto Zorio, Stella, 1978, mixed media on paper (Left); Gilberto Zorio, Stella, 1991, aluminum, javelin, iron, lamp (Right). Courtesy of Magazzino Italian Art, New York. Photograph by Marco Anelli © 2017.
A Cold Spring le opere parlano, un po’ come accade a Rivoli, respirano, raccontano la storia che hanno dietro di loro e ti guardano mentre tu le guardi.  «Abbiamo visitato tanti musei, ne uscivamo dicendoci: “questo non ci piace, così non va bene, il percorso obbligato non funziona”. Volevamo rendere possibile un giro completo tra le opere che terminasse laddove era iniziato. Ma soprattutto eravamo alla ricerca di qualcosa di non scontato, di una qualità architettonica che si sposasse all’arte», puntualizza Nancy. Ecco allora che Boetti, Paolini, Mario Merz, Fabro, Kounellis, Penone, Marisa Merz, Anselmo, Pistoletto, Zorio, Pascali, Calzolari scorrono come epifanie in un luogo pensato per loro, con un allestimento impeccabile, curato direttamente da Nancy con l’aiuto di Quismondo, disegnando un percorso che, specie oggi, acquista un significato particolare, quello di un’arte non gridata ma realizzata perché rispondeva a una necessità, perché reagiva a una temperie culturale, perché si faceva carico di una protesta che attraversava l’intero corpo della società e quel tempo, il ’68 e dintorni, discusso e controverso, ma mai banale o indifferente. 
Tutto questo rimane, e si sente.  
Ma non basta: proprio come aveva scritto Germano Celant, allorché riuniva gli artisti attivi a Torino in un gruppo omogeneo, sebbene ciascuno declinasse il “Poverismo” a suo modo, nell’Arte Povera agisce un’irriducibile esperienza e – direi di più, senza che si equivochi in un vitalismo di tutt’altra temperie – spinta alla vita. «Una delle cose che più mi colpisce di questi artisti – racconta Nancy Olnick – è la l’idea che ci comunicano che l’arte è vita». È una percezione che incarnano nelle loro stesse opere, dai paesaggi di Penone alle spirali di Merz.  
E anche questo rimane, e si sente.
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Giulio Paolini, Amore e Psiche, 1981, photo emulsion on canvas, stretchers, colored fabrics (Left); Mario Merz, Pittore in Africa (Painter in Africa), 1984, iron, wire mesh, neon (Right). Courtesy of Magazzino Italian Art, New York. Photograph by Marco Anelli © 2017.
Nella mostra che ha inaugurato Magazzino Italian Art (4 anni di progetto esecutivo e 10 anni di preparazione) più del 70 per cento delle opere sono appartenute a Margherita Stein, la celebre Madame Christian Stein fondatrice della galleria aperta a Torino nel 1966. Ed è stato quasi naturale dedicare la prima mostra a lei, alla “ribelle con una causa” come recita il titolo, «una donna coraggiosa, una persona incredibile», aggiunge Giorgio Spanu. Ma raccogliere un’eredità così importante ha anche un valore quasi filologico, di ricostruzione di una collezione – quella che viveva in casa con Margherita Stein e che lei saltuariamente vendeva in galleria – che altrimenti rischiava la dispersione, come accade per molte collezioni anche prestigiose. Ecco, invece, che Clino e Mazzo di Tubi di Boetti, collocati a Magazzino quasi uno di fronte l’altro, vengono dalla prima mostra di Boetti fatta da Margherita Stein e così via per altre ricognizioni. Pezzi celebri, che hanno una storia dietro e che Nancy e Giorgio hanno cercato e scovato in aste, frequentando le migliori gallerie italiane e internazionali, documentandosi e appassionandosi. 
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Jannis Kounellis, Untitled (Diptych), 1994, two steel plates and elements in various materials. Courtesy of Magazzino Italian Art, New York. Photograph by Marco Anelli © 2017.
Solo all’Arte Povera? No, questo è solo l’inizio, con la mostra che si chiude con una grande sala dove ad offrirsi allo sguardo sono le opere di Domenico Bianchi, Remo Salvadori e Marco Bagnoli, «artisti che condividono la stessa tensione spirituale dell’Arte Povera», afferma Giorgio. E segno, soprattutto di voler andare avanti. Non a caso nella collezione Olnick Spanu figurano anche tanti giovani (o ex giovani artisti italiani), tra gli altri: Alessandro Piangiamore, Francesco Arena, Flavio Favelli, Paolo Canevari, Bruna Esposito, Liliana Moro, Stefano Arienti. Artisti quasi tutti presenti per la festa inaugurale con cui Magazzino ha aperto i battenti, segnale preciso di un’appartenenza, di una legame forte che unisce questo luogo all’Italia. 
E che diventa particolarmente importante, tanto da farsi gesto politico-culturale carico di significato, in un momento storico in cui l’arte italiana sta diventando marginale sulla scena internazionale, a parte le massicce affermazioni sul mercato di Fontana, Burri e Manzoni e la recente affermazione Oltreoceano dell’Arte Povera. 
Se i nostri musei, le nostre gallerie fanno vedere poco quello che accade in Italia e, di conseguenza, le biennali, le triennali, le Documenta non invitano artisti italiani, invece negli Stati Uniti, a un’ora e mezza da New York, c’è un gran bel museo che fa solo arte italiana. 
Scusate se è poco.    
Adriana Polveroni           

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