12 luglio 2017

“The Tools dance”, ovvero il lavoro non sempre nobilita. Ma in questo caso l’arte avvicina, realmente, due comunità

 

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Ecco uno degli ottimi risultati del bando “MigrArti” promosso dal Mibact: è The Tools’ Dance, la performance collettiva di Nico Angiuli che ieri sera è andata in scena nella Cattedrale della Fabbrica del Vapore di Milano, supportato da careof e sotto la curatela di Martina Angelotti. 
Le premesse, a questa azione viva e condivisa, sono appunto quelle della partecipazione: quella di Lucia Zucchella e Sara Palli (Cooperativa Accesso), Claudia Pretto (ASGI), la compagnia di danza contemporanea Ariella Vidach – AiEP e una serie di migranti.
Il progetto di Angiuli nasce in realtà ben più di qualche tempo fa, ma nel 2011, come un lavoro di ricerca che permettesse la costruzione di un archivio di gesti agricoli, indagando lo sviluppo dell’automazione del lavoro nelle coltivazioni.
“Il gesto legato alla ritualità della coltivazione nei campi, rappresenta un forte modello di cultura sociale. Abbandonare la zappa per guidare il trattore non implica solo una modifica della postura del corpo umano; la macchina, nel suo significato innovativo e positivista, attiva cambiamenti morfologici del territorio che influenzano nuove dinamiche sociali”, si legge nella presentazione del progetto. Questa è la chiave per entrare in uno spettacolo di un’ora, in tre atti, dove ancora una volta – oltre ai gesti agricoli e alla loro rappresentazione – davanti agli occhi sfilano le orrende piaghe della storia; la “supremazia” tecnica dell’uomo bianco che rispetto al nero resta disarmonico, senza voce (e non è un caso che, infatti, ad accompagnare due atti dello spettacolo siano canti popolari africani) e forte solo dell’aver – appunto – distrutto un mondo naturale per averne creato uno distopico, a vantaggio solo di una forbice sociale sempre più divaricata. Ma stavolta, grazie allo spettacolo – e non è superfluo ribadirlo – sembra che ogni differenza e ogni colore svaniscano, in nome della perfetta riuscita dell’arte. 
Le azioni sono mischiate, il visivo sovvertito: l’uomo bianco (in versione un po’ amish, un po’ impiegato) risolleva l’uomo nero passato alla terra (verrebbe da dire a causa della battaglia per la tanto agognata “evoluzione” industriale) ma poi, oltre a ridargli i gesti perduti, lo tramuta di nuovo in macchina fino a portarlo ad essere automatizzato, ingranaggio di un congegno che mette in relazione il singolo gesto del lavoratore con l’ideologia, l’operare come strumento di propaganda e il lavoro inteso come “forza-motore” come principale strumento di sviluppo collettivo e individuale. E mentre i rumori della natura si fanno quasi assordanti nel secondo atto, in occasione della morte-germoglio, si chiude con il silenzio. In un valzer di macchine agricole che sembrano scavare un terreno non più fertile. Pessimismo o profezia? 

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