06 ottobre 2017

Il teatro è politica

 
A Romaeuropa è tornato Jan Fabre. E il Belgio è andato in scena al Teatro Argentina, con la “complicità” di quattordici Maestri, contro le nuove chiusure d'Europa

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Un grande armadio in legno occupa il fondo della scena. Sopra, in piedi, due donne con indosso intimo nero e tacchi a spillo sovrastano la scena con le braccia spalancate sulle quali sono appollaiati alcuni piccioni. Dall’armadio escono i Coniugi Arnolfini, protagonisti del capolavoro di Jan van Eyck, con zoccoli e abiti di velluto. Avanzano lentamente verso la platea, impettiti  e pronti a dare un futuro al paese nel cuore del continente: da sotto le vesti tirano fuori i rossi mattoni, con cui costruire le case dello stato di domani. Altre due donne, sempre in intimo nero e tacchi alti, che hanno affiancato i coniugi, si chinano e raccolgono i mattoni, li impilano, ci giocano, ci si strusciano: ecco che costruire un paese diventa un perverso e capriccioso gioco di potere. 
Con Belgian Rules/Belgium Rules, che ha debuttato al Politeama di Napoli per il Napoli Teatro Festival lo scorso luglio ed è arrivato al Teatro Argentina per il Romaeuropa Festival, il regista e artista Jan Fabre, insieme alla sua compagnia Troubleyn, racconta il Belgio portando in scena quattordici quadri di grandi maestri dell’arte belga, per prendere una netta posizione contro il nazionalismo populista e la chiusura politica e mentale che dilaga, non solo in Belgio.
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Jan Fabre, Belgian Rules, Wonge Bergmann
Tutto inizia con Andrew James Van Ostade, storico attore della compagnia, che nei panni di un ubriaco racconta la divisione attuale del Belgio, Valloni, Fiamminghi e Tedeschi, simboleggiati da carbone nero, patate gialle e mattoni rossi, uniti solo dalla birra: con più di 1200 tipologie differenti tra bionde, rosse e ambrate, il Belgio è il primo produttore al mondo. In un paese fortemente cattolico nel quale però anche la Chiesa non è esente da colpe, la birra diventa oggetto di adorazione e di culto: è il motore dell’economia, sfama e diverte, diventa croce e piaga. 
Mentre Fabre chiama in causa la storia dell’arte per raccontare la contemporaneità, il Belgio, nei panni di un riccio, si confessa: un Paese voltagabbana, che mostra la pancia per ricevere i grattini, ma all’occorrenza può rizzare gli aculei contro i nemici. Il Belgio appare come un essere inerme, incapace di prendere posizione, ma solo di subire le decisioni altrui, a cominciare dai bellicosi vicini, rischiando spesso di essere steso al suolo, sul ciglio di una strada. Il popolo è un volatile in balia di chi gli lancia le briciole, un piccione che non sa parlare, il grande coro muto, o tubante, dello spettacolo (anche se ogni tanto sembra di udire da loro il nome del pedofilo Marc Dutroux…). Il Belgio visionario e perverso di Fabre è un Paese assurdo, governato da regole e leggi altrettanto surreali, senza essere poetico come i quadri di Magritte.
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Jan Fabre, Belgian Rules, Wonge Bergmann
Sempre intervallando i quadri principali, entrano gli attori vestiti con lunghi abiti femminili grigi e grandi teste di piccione: tubano, si muovono ma rimangono negli schemi e non si scompongono. Chi osa farlo viene schiacciato e represso, sulle dolci note di Dolce Paola che l’italo-belga Salvatore Adamo aveva dedicato alla sovrana belga. Cosa fare per venire trattati come esseri umani senza diventare uno scheletro risucchiato dal sistema?
Attorno a una lunga tavola imbandita quattro uomini/piccioni festeggiano il compleanno di uno scheletro: il trionfo della morte rappresentato da James Ensor trova metafora nel banchetto dove gli uccelli celebrano la propria fine senza rendersene conto. Le Plat Pays cantato da Jacques Brel prende vita: le uniche prospettive, oltre alla birra, sono il cioccolato, il ciclismo e il calcio, il combattimento dei piccioni e le armi, merce da rivendere al miglior offerente. Il Belgio di Fabre è una bella donna con i tacchi a spillo, solo una pelliccia e un filo di perle addosso, che ti punta un’arma contro per venderti un piccione a 310mila euro o un mitra per incrementare il PIL. 
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Jan Fabre, Belgian Rules, Wonge Bergmann
Il fascino del potere nutre la perversione del regista: il corpo della donna, abile manipolatrice, è ridotto a pacco dono e a oggetto sessuale. Ma nonostante questa visione fortemente maschilista, la donna è la protagonista della scena e padrona del desiderio più estremo dell’uomo, come nei quadri  neoclassici, allucinati e perturbanti di Paul Delvaux
Con Belgian Rules/Belgium Rules Jan Fabre lancia un duro atto d’accusa contro un sistema al collasso, un popolo che, nonostante i grandi maestri del passato, ha perso il contatto con le proprie origini e dunque non ha futuro. Se uno stato basa il proprio presente sulle differenze tra i tre popoli che lo abitano non riesce più a vedere il nemico in casa, il pedofilo della porta accanto o il martire jihadista. Lo spettacolo recupera e rilancia la funzione politica che l’arte può e deve avere, strumento catartico di analisi della nostra società e dei conflitti che la attraversano.
Con un lavoro duro e provocatorio, ma in ogni caso fedele al suo linguaggio e alla sua poetica, Fabre si è assunto dei rischi, non solo artistici: un paio di anni fa è stato aggredito da una squadraccia fascista. Facendosi portavoce di un bisogno collettivo di cambiamento, Fabre riscopre nel 2017 cosa vuol dire fare teatro politico.  
Giulia Alonzo

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