18 dicembre 2017

TEATRO

 
Una faccenda di turbolenze. Intervista con Michele Di Stefano
di Paola Granato

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Da quando ho iniziato a interessarmi di arti performative ho il ricordo di Mk: alcune immagini dei loro lavori mi accompagnano, credo che sia stata una delle compagnie che più mi ha fatto avvicinare alla danza. Alcuni dei loro spettacoli mi hanno lasciato la sensazione di voler approfondire un linguaggio, altri, la vera gioia di uno stare contagioso, dove la pancia parla prima e il pensiero arriva dopo, e, nel momento in cui arriva, lo fa con un’intelligenza ironica e leggera, alla maniera di Calvino.
Pochi giorni prima di incontrare Michele Di Stefano (fondatore e coreografo della compagnia, Leone d’Argento per la danza alla Biennale di Venezia 2014) ho ascoltato Arto Lindsay in concerto, e la scintilla mi si è accesa subito, non facevo altro che pensare che quella musica fosse la messa in suono dei lavori di Mk: sexy e stridente allo stesso tempo, senza perdere l’occasione di divertire, sempre, molto.
Il 20 e il 21 dicembre all’Angelo Mai di Roma andrà in scena Bermudas, l’ultima creazione della compagnia, che proprio lì ha debuttato circa un mese fa, fatevi del bene e andatelo a vedere.
Iniziamo con la musica, leggendo la tua biografia ho letto che hai iniziato in quell’ambiente lì…
«Ero il cantante di un gruppo post punk, prima punk poi post punk, eravamo una band in senso stretto, formata da gente che viveva insieme ventiquattr’ore su ventiquattro. Vivevamo quest’energia diffusa anche in Italia del movimento punk e delle occupazioni. Tutto è iniziato a Salerno, erano gli anni dall’80 all’84, eravamo sempre in giro per l’Italia, in collegamento con una rete di persone che vivevano come noi quel momento. Era, essenzialmente, una questione di urgenze energetiche ed espressive, quindi non si trattava di un lavoro sulla composizione musicale in senso stretto, ma c’era la voglia di essere performativi in scena e il modo più immediato era quello di prendere degli strumenti e suonare, il do it yourself come si diceva ai tempi. La cosa si è, poi, strutturata di più esteticamente, perché siamo stati scritturati da una casa discografica indipendente italiana, la Contempo Records di Firenze e abbiamo registrato un disco, e si è iniziato a girare in maniera più stabile. Il disco è andato molto bene, nel circuito della New Wave italiana eravamo considerati un gruppo interessante, da un lato c’era questo desiderio di costruire l’idea del concerto come una performance e io vengo da quella dimensione là, cioè il mio interesse era soprattutto per il corpo scenico più che per la musica in se, e dall’altro un desiderio di appartenenza a un certo filone musicale, quindi anche una sorta di influenza derivativa dalla cultura anglosassone, band come Virgin Prunes e Bauhaus. È stato un divertimento assoluto, anche perché coincideva con l’ipotesi di invenzione di una piccola comunità».
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Michele di Stefano in Speak spanish, MK, Foto Amedeo Novelli
Come è arrivata la danza?
«Quando questa band si è sciolta – per motivi di pressioni che venivano dall’esterno, ma, anche, per  un esaurimento di questa prossimità così stretta e folle –  mi sono iscritto all’università, perché volevo fare quel percorso e mi volevo togliere questo impegno che avevo preso con la famiglia. Durante l’università, facendo un piano di studi molto dedicato al teatro e alla performance, ho letto tantissimo e mi sono anche auto informato su quello che succedeva nel campo coreografico. Il giorno dopo essermi laureato ho messo su una compagnia da zero, a Salerno, completamente fuori schema perché, appunto, non ero ne un danzatore ne un coreografo ai tempi, ho inventato tutto dal nulla ed è andata poi com’è andata».
Se ti chiedessi una playlist di cinque brani che ti accompagnano da sempre, quale sarebbe?
1. Talking Heads, Seen and Not Seen, Remain in Light
2. Gang of Four, Paralysed, Solid Gold
3. Un pezzo qualsiasi dei Wire, perché vanno bene tutti
4. Un pezzo degli Underwold
5. Un pezzo di Rahat Fateh Ali Kahn
Questo è il panorama: una radice fortemente New Wave che sconfina un po’ ovunque».
Quali sono invece i lavori di teatro e di danza che ti hanno segnato?
«Ci sono stati dei passaggi netti, degli spettacoli che sul momento non ho neanche riconosciuto, in un senso positivo, non capivo cosa stesse succedendo. Uno è sicuramente Amleto della Socìetas Raffaello Sanzio, l’ho visto a Mercato S.Severino in un piccolissimo teatro di provincia, eravamo pochissime persone e, io, quando ho visto lo spettacolo, mi sono detto che lì stava succedendo qualcosa d’importante. Su un piano più strettamente coreografico mi ricordo, e mi ricorderò sempre, un lavoro fatto da Trisha Brown per la compagnia di Dominique Bagouet visto a Romaeuropa Festival, meraviglioso, con dei dettagli che pensavo di aver colto solo io. Trisha Brown è stata una specie di luce, ho rivisto da poco Opal Loop alla Biennale di Venezia, un pezzo degli anni ’70, e la bellezza è ancora tanta. Oltre Set and Reset di Trisha Brown un lavoro che, appunto, mi ha profondamente colpito, c’è  Steptext di William Forsythe e uno Shirtology di Jérôme Bel visto a Lisbona agli inizi della sua evoluzione. Devo dire anche un lavoro della compagnia Altroteatro diretta, ai tempi, da Lucia Latour, dal titolo On y tombe… o’n y tombe, proprio l’inizio di questo lavoro: una marcia di soldati ultracodificata, anche quella una cosa di un altro mondo, poi l’ultima parte di The Catherine Wheel di Twyla Tharp, The Golden Section, mi ha dato moltissima gioia, proprio la gioia di buttarmi dentro un’ipotesi di creazione.  In un certo senso ero completamente isolato, tra i miei riferimenti non c’era la visione dei lavori, ma il poter leggere del lavoro di qualcun altro, quindi da subito mi sono attaccato anche alle parole al linguaggio che i coreografi usano. Il tipo di linguaggio utilizzato da Forsythe e il tipo di linguaggio usato da Cunningham quando parlava delle sue creazioni, è stato quello che mi ha deviato, anzi mi ha confermato il desiderio di immettere nella danza questioni complesse legate anche all’indagine scientifica o alla riflessione filosofica, questo è stato determinante. Insieme agli spettacoli ci sono anche dei libri importanti».
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Robinson di Michele Di Stefano
Che cos’è la coreografia per te? 
«Necessariamente, adesso, per me la coreografia è la gestione di una messa in tensione. Questo vuol dire che è molto meno legata all’articolazione di un design e molto più legata a una faccenda di turbolenze. La possibilità di entrare in conversazione e in dialogo con lo sviluppo di un sistema che comprende al suo interno non solo il corpo ma anche l’ambiente in cui questo corpo è immerso. E quindi il livello di difficoltà che si può affrontare immergendosi in questi sistemi è quello che considero il portato coreografico alla costruzione di un lavoro».
Qual è il ruolo del coreografo oggi?
«Sono di ritorno da una fortunata fuga nella foresta amazzonica e sto cercando ancora di essere quello che è tornato dalla foresta, di non perdere quell’esperienza che è stata magnifica. È ancora difficile per me capire che cosa farne di questa esperienza che ho fatto, ma sicuramente, la mia scelta artistica, legata a una sorta di obliquità e ubiquità individuale e supportata dai miei compagni di lavoro, che sono fondamentali per lo sviluppo dei nostri processi, è qualcosa che sempre di più si sta definendo all’interno di contesti e sistemi. Parlo proprio anche istituzionalmente, per cui mi ritrovo a dialogare con delle collocazioni che mi vengono offerte. Ad esempio, adesso, sto rispondendo all’invito di curare una parte del Festival Bolzano danza del 2018 e mi sto appassionando a questa possibilità. Quindi, sicuramente, da un lato il ruolo del coreografo ha a che fare anche con la collocazione del proprio lavoro all’interno della progettualità culturale più ampia e questo è, sicuramente, molto complicato. Il tentativo è, in qualche modo, quello di mantenere un equilibrio fra questa obliquità individuale e la connessione con dei sistemi. Io credo che, se il coreografo, la coreografia, l’artista, impegnato in queste relazioni riesce a tener fede a punti di vista che sono più dislocati rispetto a come procedono i sistemi, si riesca a fare un lavoro di sviluppo, di approfondimento, di arricchimento dei sistemi culturali. Poi, credo anche nella possibilità della danza di rendere evidenti possibilità insite nelle relazioni fra essere umani. La dimensione del corpo, la postura del corpo, quando viene affrontata in modi enigmatici e possibili è di per se un gesto politico, quando questo riesce a dilagare anche nel sistema che contiene anche gli oggetti artistici allora ecco che il lavoro assume un aspetto più ampio e più espanso nella società in cui viviamo. È una questione di individuazione del proprio ruolo in una società, alla fine ci si trova sempre lì: “che faccio?” “come sono in relazione alla società?” “sono dentro?” “sono fuori?” “mi muovo nei buchi della rete?”, sono questioni che secondo me non è possibile non affrontarle oggi, proprio perché non hai il tuo lavoro liberamente e selvaggiamente sparpagliato, ma questi sistemi e queste relazioni vanno costruiti».
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mk, Quattro danze coloniali viste da vicino, Photo by Michele Tomaiuoli
Hai già accennato al ruolo più curatoriale che hai assunto in varie occasioni, ideando progetti di formato più sperimentale, penso, tra gli altri alle Courtesy, alla Piattaforma della danza balinese (curata con Cristina Rizzo e Fabrizio Favale all’interno delle edizioni 20014 e 2015 del Festival di Santarcangelo sotto la direzione artistica di Silvia Bottiroli)…
«Questa è la diretta conseguenza della messa in tensione delle relazioni, per cui è chiaro che le puoi circoscrivere a un determinato luogo che è quello dove si compie la performance, però è anche vero che poi tutta questa mia attenzione verso la geografia, verso l’individuazione di quello che fa paesaggio all’interno di uno spettacolo, riguarda la questione dei confini della performance, per cui, idealmente è il cercare di rendere questi confini molto permeabili, molto friabili, questo vuol dire che oltre quel confine c’è il contesto: c’è il festival, c’è la rassegna, c’è l’evento. Per ciò mi è venuto spontaneo considerare questo spettro più ampio come un lavoro coreografico, come quando ho fatto Tropici all’Angelo Mai, per me quella era una lunga cavalcata coreografica, era come un unico oggetto, come è stato con Gamelan a Fabbrica Europa. Anche questo lavoro che sto facendo per Bolzano ha in se questa prospettiva coreografica, così come è stato il lavoro fatto per Terni Festival a settembre. É una posizione che pone un sacco di questioni, di domande sui ruoli, su chi fa cosa, sulla diluizione della gestione dei poteri specifici e parziali, tutto questo fa parte di una progettualità che non è dissimile da quella che metto in pratica nell’oggetto artistico. C’è sempre questa grande quota di invenzione, questa grande voglia di testare delle possibilità anche un po’ oscure, ambigue, vaghe, che è quello che poi mi muove nello scoprire quello che potrebbe succedere o no. Fallimento incluso, naturalmente».
Un aspetto che leggo è quello di un’urgenza di fare comunità, di incontrare l’altro e parlarsi…
«Ti posso rispondere in merito a quello che è successo a me, o, forse a livello generazionale, ho sempre vissuto questa sorta di complicità, sia con altri coreografi, e non è sempre facile, perché poi questi sistemi proprio per la loro esclusività o per la loro specificità tendono a metterci uno contro l’altro in un certo senso. Ma l’ampiezza del discorso, del dialogo, o la voglia di scambio è sempre stata presente, sia a monte dello spettacolo, sia nel tipo di collaborazioni, che metti in campo per fare uno spettacolo, il mio desiderio è stato sempre quello di incontrare. Infatti, attualmente, la mia strutturazione istituzionale è un collettivo di tre compagnie (KLM – Kinkaleri, Le Supplici, Mk) per cui anche quello è un esercizio che dice dell’agio di trovarsi in una situazione del genere. Quindi questo desiderio c’è, il dialogo non si è interrotto, sta succedendo anche con compagnie o artisti che si sono affacciati adesso e a me piace a continuare a guardarmi intorno».
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mk, Villa Manin
Cos’è Bermudas?
«Bermudas funziona così: è un sistema evolutivo, è un sistema di movimento che tende alla produzione di un moto perpetuo, costante e continuo. Un’energia che tiene sempre alta la tensione all’interno dello spazio, ed è basato sulla sua permeabilità, sulla sua accessibilità. Questo vuol dire che è un sistema che è tenuto in vita dal suo rapporto con l’esterno, c’è un dentro e un fuori. In questo fuori dal quale entrano i performer idealmente ci può stare un numero x di danzatori, da 3 in poi (ma forse si potrebbe ipotizzare anche in due). È stato, quindi, un modo per entrare in relazione con un numero più ampio di performer, è un gesto d’amore nei confronti di queste persone che mettono a disposizione la propria competenza specifica e che navigano a vista all’interno del sistema, perché l’Italia è piena di danzatori ma non è molto chiaro quale siano le loro possibilità, il loro destino, se non quello di diventare molto presto autori coreografici di assoli. La questione della messa in campo di questo corpo carico di possibilità e il desiderio di entrare in relazione con più performer possibili, anche per scambiare un po’ quali sono i principi che muovono il mio lavoro, ha determinato la scelta di avere un numero variabile di interpreti. Questo vuol dire che per permettere a un numero variabile di interpreti, quindi a un numero molto differente di personalità, di essere messe in campo nello spettacolo, ci vuole l’elaborazione di un sistema che va avanti malgrado tutte le differenze. Ho messo, quindi, a punto un sistema coreografico molto semplice che produce complessità, quello che succede è un po’ come quello che succede quando si accende il computer: il sistema si mette in attività da solo, pronto a sviluppare un’attività più complessa, il bootstrap. Questa è la possibilità che mi affascina, cioè una volta identificate le regole del gioco, tutto sta a mettere in campo la gestione di queste regole in tempo reale da parte dei danzatori, per permettere al sistema di evolversi. La consapevolezza o la competenza nel permettere al sistema di evolversi è completamente affidata al danzatore, e, questo, da un lato può essere un rischio perché è lasciato lì da solo, ma l’altro da se, ovvero, la persona che ti sta accanto, è la vera risorsa. La variabilità del cast permette anche questo continuo incontro tra persone, che di fatto si incontrano il giorno prima o il giorno stesso della performance e sanno che con un determinato tipo di cast si svilupperà un determinato tipo di dinamica, o, meglio lo scoprono in scena, devono adattarsi in continuazione. Quindi da un lato questo adattamento, dall’altro la vaghezza del risultato che è una qualità del paesaggio, come quando sale la foschia e rende il paesaggio affascinante, quindi il non completo controllo del design del lavoro, sono le cose che mi muovono. Soprattutto questa relazione chiara con i performer, nel senso che io faccio molto poco se non costruire le condizioni per le quali ritengo che quella cosa possa evolversi al meglio. Questo è un vantaggio in termini strategici perché è un pezzo talmente liquido e malleabile che io posso gestirlo come meglio credo e avrà delle versioni sempre più approfondite o diverse, ci sarà una versione da palco, come sarà a Bolzano o Udine, versioni più in relazione con il pubblico che sarà immerso nello stesso spazio dei danzatori come è successo a Terni e all’Angelo Mai, però questa leggerezza rispetto al formato e al suo set mi diverte e mi rende entusiasta».
Mi affascina molto la dichiarazione, definire lo spettacolo come un sistema coreografico…
«Il punto è proprio quello e continua a essere una dichiarazione, appunto, sull’efficacia della danza nella comunicazione diretta. Devo dire che questo lavoro che pensavo molto specifico legato al movimento puro, che è una cosa che inseguo da sempre, devo dire che nella chiarezza dell’impostazione, della costruzione arriva in maniera molto diretta al pubblico. A Udine, dove siamo stati in residenza, abbiamo fatto una preview con un pubblico osservante e dialogante, e l’informazione che ci è arrivata è stata molto chiara».

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Michele di Stefano, Bermudas

I viaggi, l’esplorazione, l’esotismo, il mappamondo e le carte geografiche sono temi cari a Mk. Ci raccontate un altrove per parlarci del nostro qui e ora, cosa ti affascina di questo immaginario? In che modo risuona nel nostro contemporaneo? 
«Mi affascinano questioni cruciali legate alla sensazione di dover percepire e reagire o elaborare questo senso globale diffuso ormai. Mi affascina la clamorosa scomparsa dell’altrove e il fatto che a questo punto forse, attraverso questo mio lancio in un territorio ideale fatto di esplorazioni, viaggi, attraversamenti e orizzonti lontani posso tornare senza sentirmi appesantito, al fatto che forse viene tutto dall’interno, forse è tutto legato al modo in cui tu guardi il mondo, e al modo in cui tu spalanchi lo spazio che metti a disposizione per gli altri. Sono strumenti di una ricognizione che con la danza coincidono dal momento in cui io penso che la danza è essenzialmente uno spostamento, un attraversamento dello spazio e quindi anche del tempo, una possibilità di affacciarsi all’esterno dove inevitabilmente per il fatto che il mondo è molto affollato incontrerai qualcun altro. Quindi la danza come uno strumento formidabile di esplorazione del mondo e degli altri con la consapevolezza che questa diluizione di se nel paesaggio è essenzialmente anche lo spalancamento di uno spazio interiore carico di conseguenze. Per cui, sicuramente, la gestione di strategie, contenuti legate a un universo romanzesco o alla definizione di una sorta di antropologia del viaggio e quindi legata al temi come il turismo sono stati linfa vitale proprio perché alla fine poi permettono anche l’elaborazione di sistemi che non parlano di nessun altrove come è il caso di Bermudas, se non nel titolo, ma che fanno riferimento a questioni che riguardano, appunto, il quotidiano assoluto che è la collocazione e dislocazione degli umani intorno a te. Per cui Bermudas non è un luogo esotico ma semplicemente la sottolineatura di una turbolenza, come nel triangolo delle Bermudas, quindi c’è pericolo, e dove c’è pericolo, c’è tensione, c’è vita».
Mi viene in mente, e ci penso da quando preparavo l’intervista, la tua performance Grand Tour…
«Sì, fa parte di questa prospettiva qua, lì c’era una grandissima enfasi sul bordo dello spettacolo: che cos’è esattamente uno spettacolo a partire dalla definizione del suo perimetro? E quanto questo perimetro è permeabile all’ingresso altrui? Per cui il vero apporto cruciale dello spettacolo era la conversazione e il dialogo con altri artisti perché permettessero l’accesso di qualcun altro all’interno del loro perimetro. E ho fatto degli incontri molto belli lì, per citarne uno Alessandro Sciarroni io l’ho conosciuto così: proponendogli di entrare in Folks ed è stata un’esperienza di conoscenza molto profonda perché tocchi un argomento molto delicato, tocchi un sistema delicato. Paradossalmente poi gli spettacoli più efficaci forti e significativi sono quelli nei quali è possibile entrare».
Adesso ti propongo un gioco, io ti dico una parola e tu mi rispondi: 

Comunità artistica
«Non sapere».
Pensiero politico
«Postura».
Corpo
«Perdita».
Mappamondo
«Golf».
Playback
«Introspezione».
Glitter
«Occhio».
Istituzioni
«Allagamento».
Una parola per descrivere il vostro lavoro:
«Outdoors».
Un libro che ti ha segnato:
«I diari di Andy Warhol».
Se potessi scegliere un personaggio (della storia, dell’arte, della letteratura…) da invitare a cena, chi inviteresti?
«Cristoforo Colombo».
Paola Granato

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