29 dicembre 2017

Le opere peggiori del 2017

 
C'è, ovviamente, anche la classifica internazionale del brutto. E la compilano quei diavoli di Artnet. E come non essere, almeno in parte, d'accordo?

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Sfogliando Artnet, in questi giorni, la classifica viene facile. E in effetti, anche noi, ci siamo fatti prendere un po’ la mano in questi giorni di bilanci. Ma va bene così; per certi versi il clima è ancora vacanziero e scanzonato.
E tra i migliori magliori e gli account su instagram dei gattini non poteva però mancare anche “Il peggio di…” e in questo caso si tratta di mostre ed opere. Artnet ne sceglie una decina e, curiosamente, la metà sono di mostre decisamente importanti, per usare un eufemismo. Chi c’è tirato in ballo? Per esempio il Minotauro di Damien Hirst nella sua mostra veneziana, Green Light di Olafur Eliasson alla Biennale e la performance di Marta Minujín Payment of Greek Debt to Germany with Olives and Art all’EMST—National Museum of Contemporary Art di Atene in occasione di documenta 14.
Perché? Secondo Andrew Goldstein Hirst considera il pubblico come un “infantile nemico da svilire e non come una persona da “nobilitare” con l’arte”; e ancora: “Per Hirst non è sufficiente creare un busto surrogato di Nefertiti: anche lui deve mostrare il seno. E non è sufficiente raccontare la storia dell’orrore del Minotauro e delle sue fanciulle sacrificali, ma deve mostrare il mostro che stupra una bella donna nuda e urlante. In questa epoca di relativismo, alcune cose sono buone e alcune cose sono davvero cattive (in entrambi i sensi), e questa è la cosa peggiore che ho visto durante tutto l’anno”, scrive il critico.
Non va meglio alla Minujìn: secondo Kate Brown l’azione, che vedeva in scena l’artista con una “sosia” di Angela Merkel nell’atto del pagamento del debito con una manciata di olive ha bucato gli intenti: non solo una goffa messa in scena, ma poca ironia senza sovversione comica. Che senz’altro è una delle armi più potenti del mondo. 
Hili Perlson parla così, invece, di Eliasson: “Tenere il workshop di Green Light all’interno dello spazio espositivo della Biennale lo ha trasformato in uno spettacolo. I singoli partecipanti si sono trasformati, come i migranti, in “anonimi” che in qualche modo hanno finito per far passare una artistar come un bravo benefattore.
E ce n’è anche per Kusama e il suo “parco giochi” a pois all’Armory Show. Julia Halperin scrive: “Ogni tanto ci si dovrebbe prendere il tempo per pensare a come realizzare un’opera”. Il riferimento è all’episodio scatenante: «Kusama ha abbozzato qualcosa su un tovagliolo, l’ha spedito via fax e abbiamo detto, “Grande!”», era stata la dichiarazione dell’ex direttore dell’Armory Ben Genocchio. “Il risultato è un lavoro che è simbolo di una modalità sempre più popolare per presentare opere prodotte in fiera e in serie. Sono come lo zucchero filato: è privo di valore nutritivo e non offre alcuna soddisfazione duratura, ma su Instagram è davvero bello”. Touché.
Fonte: Artnet

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