04 ottobre 2018

Quando si sposta il teatro in avanti

 
Di metodo, creazione, archivi e Michelangelo Antonioni. Conversazione con Daria Deflorian, Antonio Tagliarini e Francesco Alberici, sui progetti “Scavi” e “Quasi Niente”

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Da Reality a Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni passando da Quando non so cosa fare cosa faccio? a Il cielo non è un fondale, e arrivando a Scavi, il dato biografico degli autori, le vite degli altri, in fondo, le vite di noi tutti sono state scandagliate con fare amorevole e uno sguardo ironico e profondo da Daria Deflorian e Antonio Tagliarini. In quest’ultimo lavoro dal titolo Scavi, che abbiamo avuto occasione di vedere nell’ambito della 48esima edizione de Festival di Santarcangelo, diretto da Eva Neklayeva e Lisa Gilardino, che quest’anno aveva come sottotitolo Cuore in gola, si sono avvicinati a Il deserto rosso di Michelangelo Antonioni e alla figura della protagonista Giuliana. Scavi fa parte di un progetto più ampio dedicato al primo film a colori del regista, ha debuttato al FIT Festival di Lugano, infatti, Quasi niente, che vedremo in Italia al Teatro Argentina di Roma dal 9 al 14 ottobre per Romaeuropa Festival. Definito dagli stessi autori come la restituzione pubblica delle loro scoperte, Scavi, è come una scheggia, un’apertura su ciò che di più intimo c’è quando si lavora: la ricerca e i materiali che ne scaturiscono. Ma come due archeologi del contemporaneo quali sono viene fuori molto di più, un lavoro rotondo, che attraversa la fine, la solitudine, l’infanzia e la fragilità dei rapporti umani.
Di metodo di creazione, memoria e, naturalmente, di Michelangelo Antonioni, abbiamo parlato con Daria Deflorian, Antonio Tagliarini e Francesco Alberici, che li ha affiancati come autore e in scena in questo nuovo progetto.
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Deflorian e Tagliarini, Santarcangelo 2018, foto Tristan Petsola
Nella descrizione di Scavi affermate che l’opera è solo la punta dell’iceberg, non è la prima volta che lavorate con un materiale d’archivio, mi piacerebbe conoscere il metodo di scavo che usate quando fate ricerca.
Daria Deflorian: «Non c’è una regolarità, un metodo. Una frase che ultimamente abbiamo capito che ci corrisponde è che “spostiamo il teatro in avanti”, lo posticipiamo nei nostri ragionamenti. Non applichiamo subito le cose che scopriamo, rimandiamo un po’. Questo rimandare ha i suoi vantaggi perché l’indagine si libera più facilmente dalle “tesi”. Nel caso di Scavi e Quasi niente la fonte è stata la stessa. In parte sono state ricerche condivise, altre sono dei rivoli personali che ognuno segue per proprio interesse. C’è stato un importante viaggio a Ferrara mio e di Antonio per vedere i materiali del Fondo Antonioni, un amico ci ha scaricato in alta definizione non solo tutti i film ma anche tutti i documentari sul regista. Altra fonte sono stati i libri di Antonioni, i racconti come Quel bowling sul Tevere e i libri su Antonioni, tra cui in particolare Il paesaggio nel cinema italiano di Sandro Bernardi. Ciò che chiaramente è infinito, e non è nemmeno citabile, sono tutti i libri non di e su Antonioni ma su delle questioni che ci toccano. Siamo tornati a Byung – Chul Han (io in particolare), Mark Fisher e il suo Realismo capitalista, ma abbiamo condiviso letture di romanzi come La vegetariana di Han Kang. Infinito che fa parte della vita: stai lavorando e nel frattempo leggi, scopri, dialoghi, incontri. Come questo materiale entri nelle prove è molto misterioso nel senso che tendiamo, quando è possibile, a un totale assorbimento. Non vogliamo applicare il pensiero e l’indagine direttamente alla scena perché diventa poco naturale e poco complesso in quanto direzionato da un’intenzione.  C’è, infine, tutto il lavoro personale che ha a che fare con la propria biografia che viene attivato dall’oggetto di ricerca e dall’indagine. Attivazione intima e personale (ma che si è nutrita in tutto il periodo di studio di qualcosa che è anche collettivo) di stimoli che hanno a che fare con l’oggetto che è stato scelto – unica regola – altrimenti le divagazioni sarebbero infinite».
Francesco Alberici: «Riguardo al metodo di scavo, in particolare con Deserto Rosso, si tratta di un rapporto d’osservazione che si protrae talmente a lungo nel tempo che, come dice Daria, non vuole essere subito finalizzato a una restituzione teatrale. Questo permette di andare oltre il rischio di essere analitici in modo didascalico e di essere rispettosi e bravi bambini, ma di lasciarsi travolgere talmente tanto dall’opera, dall’esserne talmente ossessionati da rivederla in ogni piccolo aspetto della propria vita: in alcuni dettagli, in un punto di colore, in un libro, in una frase, in un atteggiamento. Il grado di libertà reale nel rapportarsi, in questo caso al film, si da quando non si sta più pensando a quell’oggetto in particolare ma, automaticamente, la riflessione ne è imbevuta».
É questo il momento in cui avviene la trasformazione dei materiali nello spettacolo?
D.D: «È sempre misterioso quello che succede perché c’è bisogno del dettaglio, c’è bisogno di qualcosa che quando nasce non sembra centrale. Quando cerchiamo le cose in maniera centrale finiamo col buttare via quei materiali. C’è l’imprevisto, l’irrazionalità, la dimensione di gioco. Si mette in moto qualcosa che non è applicativo ma lo riconosciamo. Di solito sulle cose più importanti siamo sempre d’accordo, non solo io, Antonio e Francesco, anche le altre persone che sono coinvolte, con cui la collaborazione è inevitabile, perché non ci sono interpreti: chi lavora con noi collabora al progetto. Anche se le densità di collaborazione sono diverse, siamo nella democrazia applicata».
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Deflorian e Tagliarini, Santarcangelo 2018, foto Tristan Petsola
Che rapporto avete con i vostri archivi personali?
D.D.: «Sono in continua attivazione. Credo sia il lavoro che mi ha attivato in tal senso, da dieci anni, da quando lavoro con Antonio. È un qualcosa che faceva parte di me anche prima, ma era una questione più interiore, scrivevo su dei quaderni che non mostravo a nessuno. È una condizione meravigliosa in cui il passato, il presente e il futuro, quello che leggo, le cose che vedo sono tutte parte della mia vita e del mio presente, sullo stesso piano. Questa è una libertà immaginativa che mi rende felice, per me sono anni molto belli da questo punto di vista».
Antonio Tagliarini: «Non sono uno che ha un rapporto conservativo con gli oggetti, con le fotografie, ad esempio. Però la cosa interessante è che ogni occasione di ricerca attiva un rapporto con il passato e con il presente. Fa vedere le cose in una maniera diversa, ci si accorge di alcune cose. Si tratta proprio del funzionamento della memoria, grazie a questa ricerca, ad esempio, si è attivato il ricordo, che poi racconto nello spettacolo, di quando ho messo la parrucca di mia madre. Quando osservi lo spazio dove vivi parla molto di te, per cui se lo guardi nella distanza capisci se è molto pieno oppure molto vuoto e se in quel vuoto c’è qualcosa che a livello conscio non sai vedere. È questione di saper osservare distanziandosi un po’».
D.D: «Volevo precisare che per me non è un fatto conservativo, non ha a che fare con la materialità delle cose il mio stare con la memoria, è un’attivazione totalmente interna».
F.A.: «Io ho un rapporto molto rabbioso con la memoria. Io non conservo foto o lettere, le butto. È un moto di rabbia istintivo per cui mi viene da cancellare tutto quello che è stato perché lo trovo molto faticoso. E questo accade in generale non necessariamente dopo un evento particolare. Mi viene da espellere, ma questo è come se permettesse, per contrasto, che nella dimensione dell’affabulazione il presente che racconto sia sempre continuamente invaso dal passato».
D.D.: «…neanche per me viene dagli oggetti pur essendo feticista da questo punto di vista. Quando ieri sera ho comprato la maglietta che indosso oggi, l’ho comprata per quello che è stato Scavi in questi giorni, per quello che è successo dentro l’aula dove siamo andati in scena. Avevo bisogno di portarmi via qualcosa che tra dieci anni non sarà collegato a Santarcangelo in generale ma a qualcosa che è successo lì dentro. Sto parlando del fatto, e mi chiedo se sia dovuto all’età, di quanto il mio presente si interfacci continuamente con immagini che vengono da altri piani, non riesco a stare nel presente. Il presente per me non esiste se non come affastellamento, è il mio modo per accettarlo. Francesco ha detto una cosa per me rivelatoria, che ho reinterpretato a mia immagine e somiglianza: fino a quando si riesce a collegare la realtà attraverso delle narrazioni ci si può stare dentro, perché non è una sola. Le persone che stanno male sono quelle che non riescono più a creare questa narrazione, che è un’illusione però permette di galleggiare. E probabilmente il mio modo di stare bene è quello di costruire una narrazione del presente che mi permetta di accettare la realtà. Ritrovarlo nel lavoro è molto rasserenante, quando vedi gli altri ridere o commuoversi, quando senti che quella cosa che ti sembra la tua mostruosità è condivisa, è un momento di una bellezza impagabile, siamo molto fortunati in questo».
F.A.: «Daria fa riferimento a delle teorie di cui mi ha parlato uno psichiatra che è venuto vedere Il cielo non è un fondale. Raccontava che in psicanalisi ci sono teorie secondo le quali la realtà è sognata. La realtà che noi percepiamo è mediata da una narrazione continua che rendiamo densa di simboli, per cui quando incontro qualcuno non è oggettivamente quella persona, ma un insieme di persone che mi ricorda, proiezioni che faccio, il dolore che vedo nei suoi occhi che richiama il mio dolore, ad esempio. Questa narrazione è continua perché la realtà nella sua crudezza sarebbe insostenibile. Personalmente questa questione del presente che è continuamente invaso dal passato la trovo una forma di inadeguatezza. Monica Demuru ha detto una cosa molto bella, sosteneva che lo stare in scena è una possibilità di stare al presente in una maniera totale, cosa che nella vita non capita. Io quando racconto una cosa in scena la sto vivendo pienamente, quando la racconto nella realtà sono sempre nel futuro o nel passato».
A.T.: «Una delle questioni su cui stiamo lavorando per Quasi niente è la questione della commedia della vita. Ognuno di noi mette in moto delle strategie di sopravvivenza. Ciò che dicevate mi fa venire in mente che, quando si va in scena, una volta superate le difficoltà tecniche delle quali bisogna occuparsi, il momento in cui si sta insieme al pubblico si è più nudi di quando si sta fuori in strada o al bar a parlare con qualcuno».
D.D.: «Mi sembra che in scena si mettano in campo meno strategie. Ad esempio, quando tra me e Antonio ci sono delle tensioni nel momento in cui siamo in scena ci puliamo: io guardo Antonio e vedo Antonio e credo che anche lui veda me».
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Deflorian e Tagliarini, Santarcangelo 2018, foto Tristan Petsola
Credo che i vostri siano lavori contro la solitudine, nel senso che ci fanno sentire meno isolai e meno vittime delle nostre ossessioni in quanto condivise. Come vivete il trattare il dato biografico e poi portarlo in scena?
D.D.: «È una domanda che può avere molte risposte, uno degli aspetti che evidenzierei è che la nostra è una creazione che prevede il lavoro collettivo dall’inizio fino alla fine, anche se con questo non voglio dire che siamo un collettivo. È una cosa che allena continuamente al confronto e a combattere l’idea onnivora di parlare di sé, quello che chiamo l’io obeso. L’altro contiene il mio bisogno ‘di dire la mia’, mi accorgo del suo disinteresse, capisco i miei limiti attraverso i suoi. È un processo che mi affatica ogni volta, ma poi ne esco migliorata. E credo ne esca migliorato anche il lavoro, ‘decantato’».
A.T.: «In fondo tutti partono da sé, come diceva Flaubert, “Madame Bovary c’est moi”. Si decide, poi, quanto alto tenere il grado di finzione, che ripara e libera molto, o, invece, assottigliare il filtro e renderlo più trasparente. Arriviamo da un periodo storico interessante e che ci ha aiutato, se penso, ad esempio al lavoro di Sophie Calle, che ha fatto della propria biografia il punto di partenza a un grado altissimo. Partendo dalle nostre fragilità e dalle nostre ridicolaggini possiamo abbassarci ed arrivare ad avvicinarci al pubblico».
F.A.: «Parlo adesso da osservatore esterno, posso dire che il dato biografico, all’interno del lavoro di Daria e Antonio, rimane quando trascende. Il dato biografico è uno strumento di racconto e di creazione sul piano artistico come ce ne sono molti altri. Credo che la loro forte capacità intuitiva stia nel selezionare tra i molti racconti ciò che ha la capacità di trascendere. La deriva rischiosa, a mio avviso molto diffusa teatralmente e non solo, diventa pornografia emotiva, che, invece, provoca allontanamento».
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QUASI NIENTE ph Claudia Pajewski
Perché Antonioni? Perché Giuliana?
A.T.: «Antonioni lo abbiamo incontrato mentre lavoravamo a Il cielo non è un fondale. In quel lavoro eravamo fortemente interessati alla relazione tra figura e paesaggio, durante la fase di ricerca, una mattina a Losanna abbiamo visto Deserto Rosso. Avendo percepito la densità del film abbiamo deciso di tenerlo da una parte, in fondo ogni spettacolo ha una ricerca autonoma ma di sottofondo c’è poi una ricerca che continua. Il film è un oggetto complesso ma Giuliana è Giuliana. Dentro al film c’è Monica Vitti, Antonioni, Tonino Guerra, ma di fatto c’è questa donna che scalpita in un mondo in cui un po’ sta dentro e un po’ non riesce a stare dentro, da una parte vuole scappare, ma non scapperà mai. Il modo di guardare il mondo di Giuliana, come Antonioni permette a lei e a noi di guardare il mondo, è una questione che ci ha affascinato subito e ci siamo tutti meravigliosamente ammalati di “giulianite”».
D.D.: «Molte cose sono ancora aperte, perché come tutte le figure grandi è una figura indefinibile, ma una delle questioni è quella della normatività. È una questione che prima di tutto ci riguarda: da una parte siamo degli outsider, dall’altra, grazie ai risultati del nostro lavoro, siamo sempre più inseriti, sempre più ‘nella norma’. In parte ne abbiamo parlato anche ne Il cielo non è un fondale, attraverso la poesia di Beppe Salvia: cosa succede e cosa si perde quando si vuole stare dentro la realtà? Ti è concesso di stare ‘dentro’ solo a certe condizioni: se ti comporti bene, il che vuol poter dire anche essere trasgressivo, ma sempre aderire a una norma. È una questione personale ma anche politica che ci sembra radicalizzata dalla continua esposizione dell’io privato in una dimensione pubblica. C’è qualcosa nella figura di Giuliana che hanno i bambini, i folli o certe figure letterarie: senza essere provocatoria e ideologica riesce a essere libera e vera. Ed è una cosa che ci interessa molto: che cosa non stai vedendo di te, dei giochetti che ti racconti, della commedia della vita?».
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QUASI NIENTE ph Claudia Pajewski
Come state lavorando per Quasi niente?
F.A.: «In Scavi ci siamo allontanati dal film posizionandoci dietro la cinepresa per guardare ai tic di Antonioni, all’amicizia con Tonino Guerra, alla storia d’amore tra Antonioni e Monica Vitti, alla Notte, l’Eclissi, l’Avventura, al diario dell’assistente alla regia Flavio Niccolini, alle lettere di Antonioni ai produttori, al finale alternativo del film. È una visione a ampio raggio e esterna, considerando “l’opera vita”. Antonioni ha intitolato la sua biografia Fare film per me è vivere, abbiamo cercato di andare in fondo a questa questione, pensando, anche, al nostro lavoro di artisti, in cui si fa difficoltà a distinguere nel mare della vita e del lavoro. In Quasi niente la dimensione è molto più immersiva rispetto al film. Il gruppo di lavoro si è spostato dentro Deserto Rosso: osservando Giuliana, i paesaggi, l’alterazione dei colori, la dimensione nevrotica di rifiuto della realtà. Le figure che saranno in scena si sono bagnate nel film, la realtà è inclinata e storta, con i colori alterati, come quella di Giuliana».
A.T.: «Se in Scavi abbiamo scelto di lavorare con un livello di intimità alto, stando in mezzo al pubblico, in Quasi niente il rapporto sarà frontale e questo sposta un po’ di questioni. Anche se la questione dell’intimità rimane centrale e c’è sempre l’intenzione di stare ‘vicino’ al pubblico, è diverso stare in uno spazio non teatrale o in un teatro all’italiana come, ad esempio, il Teatro Argentina di Roma, dove debutteremo in Italia. Stiamo facendo i conti in maniera sana con questa questione, in una situazione del genere devi da una parte rompere certi confini per non subirli ma sarebbe ottuso non considerarli. Sono domande che ci mettono in crisi, ma come tutte le crisi sono delle occasioni».
F.A.: «Se dovessimo scegliere una frase per Quasi niente sarebbe quella di Giuliana che dice “C’è qualcosa di terribile nella realtà e io non so cosa sia. E nessuno me lo dice”».
Paola Granato

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