06 ottobre 2018

MUSICA

 
Viaggio nelle “case d’opera” di Mosca. Unendo coscienza critica e divertimento
di Luigi Abbate

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A Milano, lo sappiamo, c’è il Teatro alla Scala. E a Mosca, sappiamo pure questo, c’è il Teatro Bolshoj. Se però a Milano oggi c’è solo la Scala – una volta non era così, cent’anni fa la città lombarda era piena di teatri d’opera -, a Mosca non c’è solo il Bolshoj. Ci sono altre “case d’opera” che a differenti livelli e con differenti forme di finanziamento sfornano produzioni dal Settecento alla contemporaneità. La ragione di questa importante presenza nel tessuto culturale della storia russa (e, tempo addietro, sovietica) è presto detta: la tradizione del teatro d’opera a Mosca, San Pietroburgo e altrove, vissuta come un bene primario e non superfluo, come un’esperienza che unisce divertimento e coscienza critica, viaggia fin dal diciottesimo secolo di pari passo con quella di tradizione e lingua italiana, insomma con il melodramma. 
Nel cuore del cuore di Mosca c’è uno di questi teatri. Uno dei più moderni e originali. È situato in una via elegante, piena di locali ben frequentati, vicino ad ambasciate, non lontano dal Conservatorio Čajkovskij, e, come se non bastasse, a dieci minuti a piedi dalla Piazza Rossa e dal Cremlino. Stiamo parlando dell’Helikon Opera. Esisteva già da tempo, questo teatro. L’antica struttura, che fu anche dimora di una principessa imperiale, e dalla fine dell’Ottocento si trasformò nel primo teatro d’opera privato in Russia, vantò prime assolute di musicisti come Rachmaninov, ospiti come Claude Debussy, e vi cantarono pezzi da novanta della storia della lirica, come il celebre basso Fedor Chaliapin. Nel 2007 sono stati avviati e portati a termine in breve tempo importanti lavori di restauro che hanno radicalmente trasformato la struttura originaria. Lavori di ammodernamento che hanno comportato spese consistenti, tra cui per esempio l’installazione di cento potenti proiettori-luci di produzione italiana. Ecco dunque che all’antica frequentazione del grande repertorio operistico della nostra tradizione si scopre una linea di continuità fatta di fiducia per la tecnologia e l’artigianato Made in Italy. Oggi l’Helikon Opera vanta due sale, una splendida, da 500 posti, intitolata a Igor Stravinskij, e una da 200 posti, che le permettono un’attività quasi quotidiana di rappresentazioni operistiche, concerti e spettacoli ospiti, ma anche eleganti sale-prove e spazi per l’accoglienza degli artisti invitati. La vocazione “privatistica” nella ristrutturazione e nell’ampliamento strutturale del teatro è stata corroborata dallo spirito imprenditoriale e dalla passione di Dmitry Bertman, regista, responsabile, factotum dell’Helikon, dei suoi collaboratori e delle sue collaboratrici, dei direttori, esperti come Vladimir Fedoseyev, ma anche giovani e già validissimi, come Valerij Kirianov, di una compagnia di canto “fidelizzata”, e dunque in grado di entrare bene in sintonia con le linee-guida delle scelte registiche di Bertman. Scelte che sembrano a volte rasentare la stravaganza, ma in realtà sono il segno di un’originalità che segue la tradizione delle grandi personalità storiche della regia russa, da Stanislavskij e Mejer’hold fino a Lubimov: un’estetica che non cede alla logica delle stilizzazioni, ma vive azione e “sensazioni” come sostanza e ad un tempo contenuto, fra l’altro andando in ciò al cuore del vero destinatario, il pubblico, che riempie il teatro a ogni recita. Un lavoro, quello di Bertman, che mostra il suo interessa anche dal punto di vista documentale: allorquando, per esempio, recupera e “rivitalizza” proprio una regia di Stanislavskij, risalente al 1922, dell’Evgenij Onegin di Pëtr Il’ič Čajkovskij.
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La Dama di Picche

Durante una recente visita a Mosca, s’è assistito all’allestimento di due titoli, entrambi opera proprio di Čajkovskij.  
Tre atti e sette scene, libretto di Modest, fratello del compositore, da Puškin, La Dama di picche è, con, o forse dopo, Evgenij Onegin, l’opera più nota del grande musicista russo. La vicenda: Herman – parte ingrata, costantemente in scena – è innamorato di Lisa, senza peraltro conoscerne il nome, e che scopre essere la fidanzata del Principe Eleckij. Lisa è in compagnia della nonna, la Contessa, segnata da una storia tragica: bellissima da giovane, perse tutto al gioco: tre sette e asso, le carte, prima le faranno vincere un patrimonio, poi saranno per lei causa di sciagura. I destini di Herman e della Contessa s’intrecciano nel nome della nipote Lisa, cui finalmente Herman giura eterno amore, essendone ricambiato. Il giovane strappa alla Contessa il segreto delle tre carte minacciandola con una pistola, ma la vecchia muore senza rivelarlo. Sarà lo spettro della stessa Contessa a farlo, facendosi promettere da Herman che avrebbe sposato la nipote. Ma il giovane, ormai ammaliato dall’incantesimo, non si cura della fanciulla, che si getterà in un fiume. Nella scena finale la tragedia ha il suo corso: Herman gioca forsennatamente e vince alla grande con il tre e il sette, e con spavalderia all’ultima mano dichiara con sicurezza l’asso. Apparirà invece la Donna di Picche. Si compie la vendetta della Contessa, morta di crepacuore e alla quale Herman non ha mantenuto la promessa di sposare Lisa. E al giocatore impazzito non resta che il suicidio. 
Bertman è regista talentuoso, ma è anche un vero lavoratore della direzione teatrale, e non smette mai di ricercare, di individuare nuove possibili letture. Prova ne sia il fatto che questa Dama è completamente diversa da una precedente vista anni fa in quel di Ravenna, in occasione di una delle non infrequenti ospitalità italiane di questo teatro moscovita. Bellissimo il colpo d’occhio: scena in primo piano, arredata con un elegante tavolo verde da gioco, e orchestra sul retro: un ribaltamento rispetto alla posizione tradizionale esaltato nella specifica collocazione anche da un sapiente gioco di luci. L’impianto registico è assai dinamico e non privo di effetti cinematografici, come la presenza di uno specchio in scena, inquietante solo per la sua collocazione, laterale, di nome e di fatto sinistra, laddove, forse alludendo di lontano al wildiano Dorian Gray, gioca sul ritratto deformato della donna del titolo, e che ha dell’agghiacciante nel finale. Nella scena della morte improvvisa della Contessa traspare un’ambigua, fatale liaison fra Herman e la stessa Contessa, rapporto che porta all’estremo la già forte attrazione segnata dalla pulsione ludopatica. Una forzatura, forse, che tuttavia sembra di scorgere già nella “tinta” (avrebbe detto Verdi) quasi lugubre della partitura ciajkovskijana. In definitiva, uno spettacolo affascinante, che non lascia indifferenti e che, visto nella sala dove è nato, assume ulteriore autenticità, un po’ come certo vino che, bevuto nel luogo dove è stato prodotto, ha un retrogusto differente dallo stesso comprato al supermercato.
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La Dama di Picche
Mi son soffermato su La Dama di Picche perché, certo è, insieme con Onegin, il capolavoro teatrale di Čajkovskij. Ma anche Mazeppa, il cui libretto, di tal Viktor Petrovič Burenin, si basa  pure su un testo (il poema Poltava) di Aleksandr Puškin, fa un effetto simile. Anche la vicenda di Mazeppa non brilla di ottimismo e positività, prendendo spunto dalla storia di un amore impossibile, quello fra il vecchio Atamano del titolo e la giovane Marija, figlia del cosacco Kočubej, prima amico di Mazeppa, poi nemico e delatore, e successivamente, proprio a causa di quella delazione condannato a morte dallo stesso Atamano. Trame di potere e spargimenti di sangue che condurranno la povera Marija alla perdita della ragione. Anche qui Bertman firma il lavoro in maniera originale – per esempio ricorrendo a uno sdoppiamento di Marija – e suggestiva, quasi a incorniciare gesti e azioni a volte di forte tensione in un’atmosfera quasi fiabesca, che nella conclusione dell’opera si fa puro incantamento. La sensazione, decisamente singolare, è quella di trovarsi a metà strada fra la scena del sonnambulismo della donizettiana Lucia di Lammermoor e il dimesso finale di Pelléas et Mélisande di Debussy. 
Questo il racconto di ciò che s’è potuto apprezzare. Chi volesse farsi un viaggetto a Mosca e seguire prossime rappresentazioni, troverà sul sito in lingua inglese  http://www.helikon.ru/en una programmazione con molti titoli concentrati in pochi giorni. Per esempio fino al 18 e 19 ottobre è in programma La sposa dello Zar di Nikolaj Rimskij-Korsakov,  mentre il 1 e il 2 novembre sarà in scena una curiosa accoppiata con La serva padrona di Pergolesi e Il telefono di Giancarlo Menotti, per poi tornare al grande repertorio russo con il citato Evgeny Onegin. La Donna di Picche di cui s’è raccontato si ritroverà sulla scena dell’Helikon fra il 5 e il 9 dicembre, e successivamente in aprile. Naturalmente non può mancare il popolare melodramma, prossimi titoli verdiani Il Trovatore e Ballo in maschera, nel gennaio 2019, alternati a Il gallo d’oro, sempre di Rimskij-Korsakov. Diversamente – ulteriori minacciati tagli (e come no?) permettendo – non sarà difficile ritrovarli in un futuro non lontano nuovamente ospiti di qualche teatro del nostro Belpaese. Auguriamocelo.
Luigi Abbate

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