19 ottobre 2018

AVANTI&INDIETRO

 
Una conversazione con Filippo Berta, alla scoperta di un lavoro che scava nella “banalità del quotidiano”
di Raffaele Gavarro

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La settima conversazione di “Avanti&Indietro” è con Filippo Berta, artista nato a Treviglio in provincia di Bergamo nel 1977 dove vive parte del tempo dividendosi con Milano. Del suo lavoro parla in termini di riflessioni sulle tensioni che si creano tra gli individui e l’ordine sociale al quale afferiscono. Un tema tanto attuale quanto antico e che Berta indaga scavando nella banalità del quotidiano, in quella realtà che oggi appare del tutto esposta e che ci da l’illusione di una sua comprensione immediata.
Vorrei iniziare dal corto circuito, anzi per meglio dire dallo scontro, che un tuo lavoro video del 2011, Homo Homini Lupus, ha avuto proprio con la realtà, con quelle regole sociali, e nel caso giuridiche, che sono al centro del tuo lavoro. Mi riferisco all’esposto alla Procura della Repubblica per vilipendio alla Bandiera presentato da un consigliere della Provincia dell’Alto Adige quando questo video è stato esposto nella mostra “Hämatli & Patriæ”, curata da Nicolò Degiorgis al Museion di Bolzano (16/09/2017 – 14/01/2018). Naturalmente non sei il primo al quale è capitata una cosa del genere, ricordiamo sempre a Museion l’analoga accusa al lavoro sonoro di goldiechiari, Confine immaginato, nella mostra “Group Therapy” del 2006, e di certo non sarai l’ultimo della serie. Vorrei sapere se quell’esposto ha dato, secondo te, maggiore forza al senso di quel lavoro, diventandone inconsapevole parte, oppure se lo consideri solo un banale, quanto ridicolo, tentativo di censura.   
«La tua domanda prende in esame il dilemma esistenziale dell’uomo, ovvero la realtà, che in questa intervista, per necessità di sintesi, distinguo in due tipologie. La prima è la realtà sensoriale, vale a dire un potenziale mutevole che offre all’individuo le esperienze necessarie per la crescita fisica ed intellettuale. Questa può assumere infinite forme, perché generata dalle peculiari attitudini della persona. La seconda è la realtà sociale, strutturata dalle norme ideate dall’essere umano, che gli garantisce un ordine rassicurante, ma al tempo stesso si pone come un assetto limitante e artificioso. Nel mezzo di questa dicotomia, l’arte (come tutte le attività intellettuali) cerca di offrire diverse chiavi di lettura di entrambe. Di conseguenza, un intervento artistico dovrebbe suscitare un dibattito, dove l’estetica non è il fine assoluto, ma un mezzo con cui l’autore condivide la sua urgenza. Basandomi su questo pensiero, il mio interesse è rivolto alle varie tipologie di tensioni prodotte dallo scontro tra il disordine della realtà sensoriale, che alimenta il nostro intelletto, e l’ordine innaturale della realtà sociale, dal quale non riusciamo, o forse non possiamo, emanciparci. Nello specifico, il video Homo Homini Lupus (2011) è una riflessione sulla necessità dell’individuo di emergere dall’uniformità prodotta della realtà sociale, che nel lavoro è rappresentata da un branco di lupi identici in un ambiente inospitale, dove emerge il colore grigio in contraddizione con i colori della bandiera. Questo sfogo insano e improduttivo è incentivato dalla tensione insita nel dualismo tra lo Stato di Diritto (la bandiera) e lo Stato di Natura (i lupi). Di conseguenza, nel video la bandiera è contesa, e non lacerata e gettata, come presuppone il concetto di vilipendio. A tal proposito, la scena chiave è un primo piano di un lupo che ingoia un brandello della bandiera, mosso da un’incontenibile sete di potere. Ovviamente quando si toccano i tasti sensibili della vita sociale, e non ci si chiude nel manierismo estetico, le reazioni possono essere molteplici, lecite e necessarie. Purtroppo, non rientra in queste categorie l’esposto alla Procura della Repubblica del consigliere della Provincia dell’Alto Adige, Alessandro Urzì. Non fu nemmeno una censura di potere e controllo sociale, contro cui è doveroso opporsi duramente. Leggendo le sue accuse pubblicate sui social (ormai una pratica ineludibile per i politici) capii che si trattava solo di un una sterile strumentalizzazione del mio lavoro. L’autore dell’esposto non aveva nemmeno visto il video in mostra a Museion, e faceva riferimento a quanto riferitogli da altri. Un chiaro, semplice, banale tentativo di ricerca di consenso politico. Per questo motivo ho optato per un sano e ragionevole silenzio».
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Filippo Berta, Homo Homini Lupus, 2011, HD Video 2’43’’, video-still
Sono andato convincendomi che una delle ragioni che sta portando sempre più l’arte ad occuparsi di sociale e anche di politica, sia proprio da ricercarsi nel bisogno di un rinnovato rapporto con la realtà, compresa, ovviamente, quella sua sempre più sostanziale componente digitale.
Da convinto realista e socialista qual era, Bertolt Brecht si poneva il problema di trovare e usare “una forma adeguata” grazie alla quale superare il vecchio formalismo e giungere ad un modo nuovo di “parlare al popolo” e soprattutto di “farsi capire dal popolo” (1938). Ma oggi accade qualcosa di radicalmente nuovo, un vero e proprio ribaltamento, in conseguenza del quale il “popolo” crea, trova e usa le nuove forme proprio nella realtà digitalizzata. È per questa ragione, mi pare, che il problema che si sta ponendo oggi l’arte, ma anche la letteratura, non è più quello di trovare forme rinnovate e adeguate, ma di scoprire il senso di ciò che già è, o meglio di mostrare se quelle forme presenti nella realtà siano davvero comprese e quindi utilizzate con cognizione di causa. E naturalmente questo processo trova proprio nelle questioni sociali e politiche il naturale campo di verifica delle complessità in atto. Ma in una certa misura tutto ciò corrisponde anche alla necessità da parte dell’arte di trovare un nuovo ruolo nel contesto nel quale siamo. Un lavoro che ritengo possa aiutarci a capire più in profondità queste nuove condizioni mi pare sia la tua performance del 2017 A nostra immagine e somiglianza #1.  
«L’arte ha molteplici scopi e di conseguenza possiede un ruolo radicato nella comunità, sebbene non offra un’efficacia istantanea. Questa è una condizione indipendente dall’epoca storica e dalle forme estetiche utilizzate dagli artisti. In sintesi, l’arte dovrebbe mettere in crisi le certezze dell’individuo, perché solo nel dubbio si celano i presupposti dell’evoluzione intellettuale soggettiva. Tutto ciò non accadrebbe se l’uomo fosse un essere vivente perfetto, che si sublima in se stesso disinteressandosi dalla realtà circostante. Ma spostiamoci da questo “sogno bruniano” in cui l’arte non avrebbe motivo d’esistere, per analizzare invece la concretezza del concetto di popolo da te citato. Come prima cosa, esso va inteso come un collettivo eterogeneo e non come un emblema uniformante e strumentalizzato dai politicanti, che per sua natura richiede un linguaggio complesso e non difficile. L’artista potrebbe evitare una comunicazione ermetica facendo uso di quei significanti nascosti nelle crepe della realtà, tangibile o digitalizzata, che spesso sono erroneamente considerati banali. Nello specifico, la performance A nostra immagine e somiglianza #1 si fonda sul gesto quotidiano dell’appendere un crocefisso. Ma l’ordinarietà di questo gesto è destabilizzata dal fatto che i performers lo pongono nel punto più alto concesso dai loro corpi. Per questo motivo, nella prima parte della performance, le persone coinvolte fissano i chiodi al muro rimanendo in punta di piedi. L’azione termina quando tutti i partecipanti hanno appeso dei crocifissi identici, ovvero degli idoli standardizzati, rendendo visibile una linea di confine irregolare, perché determinata dai peculiari limiti corporei delle persone. In quel momento, lo spettatore si trova difronte all’immagine iconografica della performance, costituita dal dualismo tra imperfezione e perfezione, corporeo e spirituale, vale a dire due opposizioni separate da una frontiera problematica, che definisce le dimensioni del “sotto” e del “sopra”. Questo lavoro è il primo capitolo di una trilogia, proposta come una riflessione sulla necessità ossessiva del popolo di possedere un’icona come simbolo della perfezione rassicurante, in cui la realtà tangibile trova la sua giusta conclusione, ma che nello stesso tempo cela in sé un gioco dualistico in costante tensione tra idolo e idolatra. In conclusione, la comprensione e l’utilizzo con cognizione di causa delle forme presenti nella realtà da parte del popolo (presi in esame nella domanda), in questa performance sono stati sovvertiti a partire proprio da un gesto comune, con il proposito di sollecitare il dubbio destabilizzante, e quindi evolutivo, che ho citato prima in questo testo».
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Filippo Berta, Allumettes, 2013, performance, HD Video 5’14’’, Foto Diasec
Marshall McLuhan nel suo “Capire i media – Gli strumenti del comunicare” (1964), nel settimo capitolo “Sfida e crollo – La nemesi della creatività”, riporta una frase di Wyndham Lewis (scrittore e pittore inglese morto nel 1957): “L’artista è sempre impegnato a scrivere una minuziosa storia del futuro perché è la sola persona consapevole della natura del presente”. Al di là del contesto dei ragionamenti di McLuhan sulle tecnologie, quelle parole di Lewis pongono inevitabilmente la questione sul se e in quale modo oggi sia ancora così. In altre parole, non ti sembra che la pressione del presente sia tale che anche l’artista, come tutti oggi, sia costretto a scrivere una minuziosa storia di quello stesso presente, perché del futuro semplicemente non si avverte l’urgenza d’immaginarlo e quindi di conoscerlo?
«Dalle tue parole emerge con prepotenza il sostantivo “pressione”, che in campo scientifico è la causa di molteplici effetti. Trasferendo questo assunto alla disciplina umanistica, si può sostenere, quasi scientificamente, che ogni individuo reagisce alla pressione del presente in maniera esclusiva. Di conseguenza, se allarghiamo il nostro campo di visione, allontanandoci dalla dimensione microscopica del singolo, vediamo un ammasso disordinato di reazioni alla stessa pressione quotidiana, su cui paradossalmente poggia la società umana. In questa condizione, vicina all’immagine di una discarica, si generano ordini instabili, mutevoli e oggi più isterici rispetto al passato. La pressione del presente, citata nella tua domanda, forse è addirittura vitale per questo tipo di società. Trovandoci al centro di questo ciclone, ci ancoriamo al mito della persona in grado di anticipare i tempi, mentre noi viviamo il presente come un’idea setacciata da filtri di lettura interiori, scaturiti da intime esperienze sociali. L’artista, in tutto questo, è una persona estremamente radicata nel presente, al punto tale da subirlo. Egli vive della propria capacità di lettura del mondo attuale, volta a rivelare ogni minima peculiarità della realtà percepibile, spesso tenute nascoste per svariati motivi. Questa è chiaramente una condizione antitetica all’atto di immaginare un futuro, che verte invece a proporre tesi plausibili o inverosimili. In conclusione, spostando la riflessione oltre al raggio d’azione dell’artista, se il big bang postmodernista ha generato un nuovo “pianeta sociale”, che consiste in un agglomerato sferico primordiale, a questo punto possiamo immaginare il presente come una sottile crosta che ricopre questo pianeta. L’individuo, da parte sua, ha l’obbligo di camminare su questa superficie, come atto dovuto per una costante crescita intellettuale, ma nel mentre, percepisce sotto i suoi piedi l’instabilità data dal perpetuo ribollire di un nucleo ancora predominante. In una tale situazione, l’essere umano è l’essenza stessa del presente, mentre l’immaginazione del futuro è una piacevole distrazione o una scelta di fede ideologica, che offre al devoto il sogno di mondi futuri indiscutibili e rassicuranti».
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Vista dello studio
Hai ragione a dire che la parola pressione ha un certo peso nel mio discorso, e credo sia conseguenza di quell’effetto, reale e psicologico, che ha oggi il presente su tutti noi, o quasi.  
Grazie alla fisica quantistica stiamo imparando a capire meglio quale sia la natura del tempo, che è costituito da una serie di avvenimenti. Il mondo stesso è continuo cambiamento e le cose che compongono la nostra realtà, come ci spiega Carlo Rovelli, sono esse stesse eventi, più o meno lunghi. Il presente è il dispiegamento istantaneo di questi eventi, ma contemporaneamente è il risultato di quelli avvenuti e il presupposto di quelli che avverranno. Considerazioni che mi fanno pensare al tuo lavoro Il cerchio è solo una forma perfetta del 2017, nel quale un gruppo di persone soffiando dentro dei tubi creano un cerchio nel mezzo di un liquido nero contenuto in un cubo di acciaio che si trova in un luogo separato. Un’azione collettiva che determina un evento e che cessa di esistere quando termina l’azione. Le cose, gli eventi, come dice sempre Rovelli, “sono – se ci sono – in un dove ma anche in un quando.”
«Nella fisica contemporanea, il “quanto” è definito come una quantità indivisibile, e come tale, esso esiste a prescindere dalle unità di misura come il “tempo”. Questo è il motivo per cui la dimensione umana sensibile, che invece è strettamente legata al tempo, non certifica la vera esistenza delle cose, ma ne conferisce una valenza esperienziale. Di conseguenza, le differenti concezioni sensoriali sull’esistenza delle cose dipendono dall’unione di due elementi prettamente umani, ovvero: il tempo e l’esperienza sensoriale. A partire dalla natura umana si struttura la realtà delle cose sensoriali, le quali si basano su un paradosso: esse non sono misurabili scientificamente, ma nessuno può negarne l’esistenza, proprio perché sono percepite. Citando Gino De Dominicis, le cose dovrebbero essere eterne per esistere veramente, vale a dire una condizione che va ben oltre dalle loro quotidiane dimensioni, che dall’artista sono definite come semplici “verifiche di certe possibilità della natura”. Sulla base dell’assunto di De Dominicis, si può analizzare la performance “Il cerchio è solo una forma perfetta” (2017). Lo spazio espositivo era la grande sala dello SPE/Performance and Exhibition Space, dell’Associazione Culturale dello Scompiglio (Lucca), che per l’occasione era divisa in due parti. Lo spettatore, quando entrava nella prima area, si trovava di fronte un’installazione composta da un tubo metallico, fissato al soffitto, da cui usciva un getto d’aria, e la sua spinta generava un buco al centro di una superficie liquida, quadrata e nera. Successivamente, entrando nella sala adiacente, la persona scopriva che tale pressione era prodotta da persone disposte in cerchio, le quali soffiavano con forza in piccoli tubi di gomma. Lo sforzo collettivo, che mantiene visibile il cerchio nel quadrato (ossia due forme ideologicamente opposte), equivale al tentativo fallimentare di raggiungere la forma di una società perfetta, in cui ognuno si sente necessario. Questa tensione si manifestava nella variazione delle dimensioni del cerchio, che dipendevano dalla forza d’impatto dell’aria sulla superficie liquida. In tutto questo il fallimento era un elemento discreto ma inesorabilmente presente, perché il cerchio sarebbe stato visibile solo fino a quando il getto d’aria sarebbe uscito dal tubo. A riguardo, parafrasando De Dominicis, il cerchio (metafora di una condizione perfetta) esiste solo come un potenziale della natura, di conseguenza è, e rimarrà, variabile e temporaneo. In conclusione, se l’arte è una scienza che studia la dimensione umana, proprio come la fisica, non solo ammette l’errore, ma lo considera come un elemento quasi necessario».
Conosciamo bene il fallimento, una condizione che nell’arte è parte stessa del progetto e che nel tempo in cui l’opera è pretesa unicamente come oggetto, alla stessa stregua di qualsiasi altro oggetto desiderabile nella realtà dominata dalla logica del capitalismo, diventa un’arma di destabilizzazione micidiale. È proprio nel fallimento dell’oggetto, come sosteneva Jacques Lacan, che probabilmente sta il futuro del soggetto, e ovviamente dell’arte.

Raffaele Gavarro

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