22 gennaio 2019

Musica

 
Indagando i palcoscenici d’Italia, negli ultimi mesi, tra prime assolute e titoli evergreen
di Luigi Abbate

di

Gli ultimi mesi dell’anno da poco concluso han visto snocciolarsi sui palcoscenici italiani produzioni di teatro musicale nuovo e nuovissimo. Parliamo sia di partiture in prima assoluta, una delle quali attesa come non accadeva da anni, sia di allestimenti di – e intorno a – titoli della grande storia musicale e teatrale, titoli e miti intramontabili, originali o declinati attraverso loro riscritture e ricollocazioni sceniche.
Il racconto, decantato nella riflessione “a freddo”, segue un calendario cadenzato dalle presenze all’unico spettacolo o alla replica a cui ho potuto assistere.
Domenica 30 settembre, a Reggio Emilia, Lontano da qui. Da sottolineare subito una parola: coproduzione, qui fra Teatro Lirico Sperimentale di Spoleto e Fondazione I Teatri di Reggio Emilia. Soluzione, vista la situazione di abbandono cui a livello politico-istituzionale è lasciato il mondo della creatività musicale in Italia, da difendere con la forza della disperazione. Dunque, la prima in Umbria, locus ispirativo del soggetto, la ripresa, pochi giorni dopo, in terra emiliana. La partitura musicale è firmata da Filippo Perocco, compositore italiano assai attivo fra quelli che nell’odierno panorama rivolgono attenzione al teatro. Aveva ricevuto ampio consenso con Aquagranda, che alla città lagunare e alla drammaticità, pare ormai, ineluttabile della sua più grande insidia rivolge attenzione, partendo dall’episodio dell’alluvione del 1966. Con Lontano da qui il teatro dell’azione si sposta da una sciagura del Nordest a una sciagura del Centro, il terremoto che nel 1979 aveva colpito la Valnerina, richiamando così altri tragici simili eventi di anni più recenti. Ma qui non si mette in scena la natura più o meno matrigna. Lontano è il tempo della Creazione haydniana, di tempeste e temporali beethoveniani rossiniani o berlioziani. Insomma, non c´è sisma in scena. Incombe – come il Commendatore nel mito di Don Giovanni – proprio grazie alla sua assenza. Ciò che qui interessa è la quotidianità che precede e segue il tragico evento, la sospensione del tempo, la possibilità, offerta dai “maravigliosi” sortilegi di musica e teatro, di ribaltare la sequenzialità temporale, evocando senza dover ricorrere alla logica della narrazione. I tre argomenti-base dell’azione concorrono efficacemente a rendere questa complessità: la drammaturgia di Riccardo Fazi, che modula tre diverse strutture narrative (dialogo fra una madre e una figlia, materiali sonori “concreti” legati a situazioni vissute in conseguenza di eventi sismici, la stessa natura, appunto non evocata ma cantata); la delicatissima regia di Claudia Soraci, capace di rendere quella presenza/assenza del terremoto attraverso gesti semplici ed essenziali; la musica di Perocco, costruita sulla dialettica fra un ensemble strumentale, diretto da Marco Angius, e l´elaborazione elettronica di campioni sonori delle campane provenienti da chiese distrutte o lesionate dal terremoto. Uno spettacolo che ben riesce a coniugare la forza emotiva del soggetto (particolarmente sentita in occasione della prima spoletina, proprio nelle terre teatro del sisma) con la sobrietà del segno espressivo portato in scena.
null
Lenz Fondazione, Verdi Macbeth © foto di Fiorella Iacono
Sabato 13 ottobre, Bologna, Teatro Comunale, Kraanerg di Iannis Xenakis, prima italiana. “Entro tre generazioni la popolazione del globo supererà i 24 miliardi di persone… il conflitto biologico infurierà … a un livello mai provato prima dall’umanità. Questa straordinaria moltiplicazione dei conflitti è prefiguarata dagli attuali movimenti giovanili…”.   Nelle parole dell’autore la sintesi di un´azione coreografica, datata 1968, il cui titolo è prodotto dalla crasi di due parole greche, Kraan, realizzazione perfetta, ed Erg, energia vitale. Curioso il fatto che uno dei protagonisti più radicali e, definito non solo dai detrattori, cerebrali della musica di ricerca abbia rivolto attenzione alla danza in un momento, siamo nel 1968, in cui non solo la danza, ma persino il teatro in musica era considerato roba da vecchi borghesi ammuffiti. Anche se, a ben vedere, l´azione coreutica aveva e avrebbe ancora prodotto in quegli anni altri saggi di rilievo: solo in Italia per esempio BOB (Bussotti Opera Ballett) o Mutazioni, soggetto di Nanni Balestrini per la musica di Vittorio Fellegara. In realtà proprio quelle parole citate e soprattutto la musica mostrano chiaramente come l´azione coreutica ben si attagli al progetto poetico del grande compositore greco-francese. In questo caso tutto nasce da una commissione del celebre coreografo Roland Petit – e non secondario nella formulazione del progetto deve essere stato a suo tempo il contributo visuale di un artista come Victor Vasarély. Ma alla fine, e nonostante la presa di distanza del compositore dal suo stesso lavoro, ne è nata una partitura sanguigna, accesissima, autenticamente “impegnata”. Ne coglie il senso l´allestimento del coreografo e regista Luca Veggetti, capace di muovere abilmente una pluralità di corpi in palcoscenico non addestrati a livello professionale. Belle trame geometriche di masse si dipanano su un palco, lumeggiato (molto bene da Vincenzo Raponi) ora in modo freddo e tagliente, quasi esaltandone l´oscurità, ora intenso e diretto, a sottolineare la drammaticità, mezzo secolo dopo quel Sessantotto celebrato a iosa lo scorso anno, dei motivi che innervano il balletto di Xenakis. Peccato solo che nella distribuzione entro gli ampi spazi scenici del teatro bolognese Veggetti abbia tenuto poco in conto le peculiarità e soprattutto le limitazioni acustiche che comportava la collocazione dell’ensemble orchestrale in fondo alla stessa scena, fra l´altro messo in relazione con un suono diffuso di tutt’altra natura e spessore prodotto da un nastro magnetico diffuso direttamente nella bellissima sala del Bibiena. Peccato non veniale, perché, anche se con fatica, data appunto la provenienza lontana del suono acustico, si poteva percepire la qualità del lavoro svolto con i musicisti del Comunale e su una partitura tutt’altro che semplice da Yoichi Sugiyama, direttore fra i più dotati e sensibili che si possano apprezzare nel nostro paese, per fortuna spesso ospite del Festival Bologna Modern, di cui questa produzione ha inaugurato la terza edizione (e data la situazione, auguriamoci che la rassegna sopravviva). 
null
Kraanerg, Alice Raffaelli e I-Ling Liu, (crediti: Rocco Casaluci)
Domenica 14 ottobre, a Parma, Festival Verdi, Le Trouvère di Giuseppe Verdi. Verdi? Ma non dobbiam parlare di teatro musicale contemporaneo? Fino a qualche decennio fa i registi d’opera erano considerati poco più che direttori di scena, facevano cioè parte integrante del gruppo di lavoro di un teatro. Poi sono arrivati nomi importanti, per esempio Max Reinhardt per la prosa, o Luchino Visconti (anche) per l’opera. Da quel momento il regista si fa co-autore – nel bene e nel male – e non solo coordinatore di un allestimento. A un certo punto, poi, arriva da Waco, Texas, Bob Wilson. Il maestro della Slow motion applicata alla scena, artista a tutto tondo, Leone d´oro alla Biennale, entrato nella storia con Einstein on the Beach, lascia il segno anche su titoli del grande repertorio, fra cui alcuni verdiani. E allora se Verdi è messo in scena da Bob Wilson non diventa forse più che mai “nostro contemporaneo”? Produzioni contestate (come un’Aida di successo in Belgio ma fischiata nella ripresa del 2009 all’Opera di Roma), ma anche apprezzate, come un suggestivo Macbeth visto a Bologna nel gennaio 2013 – e allora diretto con mano sicura, come questo Trouvère, da Roberto Abbado – attuale direttore artistico del Festival Verdi – , anche se qui la gigantesca volumetria del Teatro Farnese era misura di uno spazio acusticamente inadeguato. Wilson affronta Verdi con grande rispetto, ma al tempo stesso senza rinunciare alla propria lingua. Nessuna intenzione trasgressiva ma gesto come sempre asciutto, sottolineato da movimenti nervosi, quasi tic, firma inconfondibile del regista texano, stilizzati nei bei costumi (di Julia von Leliwa) prossimi più a un Midsummer Night Dream che al truculento dramma di Gutiérrez ripassato nell’olio del libretto di Salvatore Cammarano e, qui nel francese di Èmilien Pacini. Tutta tesa all´astrazione la monocromia del fondale blu-celeste, rotta da porte d´entrata e uscita e, in alto, da quadrati sempre monocromi che parevano in immaginario dialogo con le superfici altrettanto monocrome di un Fratteggiani Bianchi. Gustosa poi la soluzione trovata per la coreografia: come è noto, ogni qualvolta Verdi approntava una versione per la scena parigina doveva inserire musiche per i balletti. Wilson inventa un simpatico ring dove pugili e pugilesse, grandi e piccini, entrano in sequenze cadenzate, indossando guantoni color sangue che contrastano alla grande con il cerùleo della scena. A questi si aggiunge la seduta, or qua or là, di un vecchietto con cappello, bastone e barba bianca, simulacro eventuale di un Verdi ammiccante che richiama alla memoria foto vintage di personaggi persi nelle nebbie di um’Emilia che non esiste più. Lo spettacolo si può rivedere proprio in questi giorni, dal 22 al 29 gennaio, a Bologna, essendo il titolo, in ripresa nell’abituale versione italiana, una coproduzione fra Festival Verdi e Teatro Comunale del capoluogo emiliano (Pinchas Steinberg sul podio degli stessi complessi bolognesi ascoltati a Parma, che a sua volta ha visto ottime voci nei ruoli principali femminili Roberta Mantegna e Nino Surguladze, maschili Giuseppe Gipali e Franco Vassallo).
E già che ci siamo diciamo anche del Verdi Macbeth, in scena sempre nel contenitore del Festival Verdi negli stessi giorni del Macbeth “vero” (regia di Daniele Abbado) e del Trouvère. Momento di intensa ricerca teatrale prodotto da una compagnia parmense di cui Exibart si è più volte occupata, Lenz Teatro, e nel cui lavoro il suono non ha mai un ruolo di secondo piano. Suono dei grilli, questa volta. Scrive Francesco Pititto, che come sempre firma lo spettacolo con Maria Federica Maestri e con le rielaborazioni musicali verdiane di Andrea Azzali: “Corpi e suoni, perché i grilli sono lì, tanti, invertebrati presenti, odoranti, silenti nel movimento. E il suono è sì richiamo sessuale ma anche parola – grilli parlanti – parola di lamento, goccia di lacrima penitente per quel che è già successo, anche se deve ancora accadere il Fatto, l´assassinio, il tradimento, il potere, la profezia”. Parole che rendono bene il senso di uno spettacolo che porta il suo assistervi quasi ai limiti della forzatura sensoriale – visiva, uditiva, olfattiva. Il frinire dei grilli come segnale indicatore di un´inquietudine macilenta. Un´altra tappa del lungo tragitto drammaturgico di questo continuo laboratorio delle riletture, qui del tremendo dramma scespiriano riverberato nel, e attraverso, il capolavoro di Verdi.
Dal laboratorio di Lenz Teatro a Finale di partita di Samuel Beckett il passo potrebbe essere breve, o enorme, dipende dal punto di vista. Nel frattempo però bisogna riferire brevemente anche di un Satyricon di Bruno Maderna visto al Comunale Pavarotti di Modena domenica 11 novembre. Una messa in scena che per la verità non ha fatto impazzire. E non tanto per certe supposte sconcezze in scena volute dal regista Georg Schmiedleitner per sottolineare i dubbi gusti di un Trimalchio ormai in disarmo (se ne sono viste talmente tante in teatro che pare una pruderie scandalizzarsi dele stesse pruderies…). È che ci si sarebbe atteso ben altro, considerando il prestigio delle istituzioni che insieme al teatro modenese hanno prodotto lo spettacolo (una volta di più, e questa sí, benedetta coproduzione!), ossia la Semperoper di Dresda e il Festival di Pasqua di Saliburgo. Invece la regia non è parsa discostarsi da un approccio tradizionalmente “alla tedesca” – schematicità dell’impianto, caratteri tagliati con il coltello. Un Satyricon che ha fatto rimpiangere la bella edizione vista al Teatro Goldoni di Venezia per la stagione della Fenice nel lontano 1997, regia di Herbert Wernicke. Viceversa l’ultima, forse incompiuta fatica di Maderna ha trovato riscontro positivo nella realizzazione musicale, qui guidata dalla mano esperta di Pietro Borgonovo con ruoli vocali credibili e alla testa di un giovane gruppo strumentale.
null
Finale di partita, Glauco Mauri
Si diceva dunque del salto da Lenz a Beckett. Fatto sta che il 3 novembre lo si va a vedere,  Finale di partita, al Piccolo Teatro di Milano, delizioso antipasto del piatto forte, l’attesissima Premiére dall’omonimo titolo in forma di opera lirica, in programma al Teatro alla Scala nei giorni successivi. Antipasto per modo di dire: il capolavoro (1956) del grande autore irlandese, Premio Nobel nel 1969, è una pietra miliare del teatro novecentesco. Ce lo regala uno straordinario – quasi novant’anni – Glauco Mauri nei panni di un Hamm in costante, claustrofobico litigio con Clov (l’inseparabile, eccellente Roberto Sturno) e in dialogo surreale con i genitori Nagg (Mauro Mandolini) e Nell (Marcella Favilla), rintanati nei loro bidoni della spazzatura. Mauri ci spiega in poche parole la sua lettura: “La tragedia del vivere diventa farsa – la farsa del vivere diventa tragedia”. Lasciando da parte, giustamente, l´etichetta di comodo associata a questa piéce, e in generale ai testi di Beckett, come saggi esemplari di teatro dell’assurdo, Mauri e il regista Andrea Baracco pongono l´accento sulla condizione esistenziale dei personggi, sottolineando sfumature d´umanità che in realtà Beckett ci rivela nelle pieghe intime del suo testo. Sappiamo bene quanto Glauco Mauri sia maestro di sintesi di lucidità e intensità interpretativa, e pochi giorni più tardi ritroviamo questa sintesi, che si fa commozione, scoprendola transitare dal testo originale alla sua messa in musica: martedì 20 novembre, Teatro alla Scala, Fin de partie, ovvero, come recita la locandina, Samuel Beckett: Fin de partie, Scènes et monologues, opéra en un acte, musica di György Kurtág. La prima assoluta era stata celebrata cinque giorni prima, assente l´autore, novantaduenne residente a Budapest, ma con in sala il discusso primo ministro ungherese Viktor Orbán e un battaglione di giornalisti venuti da ogni dove, che han fatto contento il Sovrintendente del teatro milanese. Alexander Pereira inseguiva da anni questo progetto, già programmato in precedenza ma slittato a causa di problemi di salute del grande compositore. Piatto forte anche del Festival Milano Musica, che nel frattempo metteva a fuoco il rapporto fra Kurtág e l´universo beckettiano con concerti e incontri tematici. Kurtág è una delle più affascinanti voci viventi della composizione contemporanea. Una voce che, nella schiettezza del suo approccio al comporre, fa diretto riferimento ai grandi della storia musicale. “La mia lingua madre è quella di Bela Bartók e la lingua madre di Bartók è quella di Beethoven”, è solito dire. La sua musica è costruita all´interno di una sorta di microclima emotivo, un intimistico universo (l´ossimoro è pressochè inevitabile) fatto di relazioni fra puro evento fonico e sue possibili interpretazioni fortemente individualizzate. In altre parole, ciascuno di noi, ovviamente disposto a mettersi in gioco, può attraverso la musica di Kurtág costruire un personale percorso di percezione e conoscenza del proprio vissuto musicale. Un esempio tra mille possibili. 
null
Fin de Partie Frode Olsen e Leigh Melrose
Ancora all´inizio della partitura di Fin de partie risuona, affidato ora al clarinetto basso, ora ad altri strumenti, un frammento di melodia, assai ben “limata” con permutazioni di note e intervalli. L’orecchio-cervello ne resta incuriosito: un motivo lontano ma familiare. Quando poi si arriva – o forse si crede di arrivare – al suo riconoscimento si rimane stupefatti, quasi increduli: il frammento rimanda a una canzone di Pino Donaggio, Io che non vivo senza te, presentata al Festival di Sanremo nel 1965, e divenuta successo planetario (ottanta milioni di copie vendute) grazie alla diffusione resa nel mondo anglosassone grazie a Dusty Springfield ma soprattutto a Elvis Presley. Non solo: il profilo melodico di questa canzone pare rifarsi a quello della musica del film Limelight (Luci della ribalta) di Chaplin, autore della stessa colona sonora vincitrice di un Premio Oscar. E non è finita: entrambi i motivi potrebbero avere un archetipo nell’inizio del Secondo Pezzo per pianoforte op. 118 di Johannes Brahms. Forse non è vero nulla di tutto questo, ma a me piace molto pensare che sia andata cosí, e che nella sua mirabile sensibilità compositiva György Kurtág abbia concepito proprio quel che ho vissuto io. Ma torniamo alla rappresentazione scaligera. La voce di Kurtág s´è sempre espressa attraverso le piccole forme della musica da camera, sia per le dimensioni delle sue pagine, generalmente raccolte di brani di breve e brevissima durata, sia per le scelte degli organici strumentali. Poche le composizioni di grande respiro, come Stele per orchestra, apprezzata in uno dei concerti a lui dedicati durante il Festival. Ovvio dunque che fosse grande l´aspettativa per la rappresentazione di un lavoro di teatro musicale che, come si usa dire, fa serata. Aspettativa che non è andata affatto delusa per chi ha voluto, potuto e saputo apprezzare. Il lavoro si svolge, si diceva, come una sequenza di scene e monologhi, quasi micromondi di nucleare tensione espressiva. Il testo originale di Beckett è rispettato, ma la musica ne enfatizza appunto la densità emotiva, trasformando l’ineluttabile trascorrere di una non-vicenda (appunto il finale di una partita a scacchi, quando il giocatore perdente temporeggia, pur consapevole della sconfitta) in una sequenza di interstizi temporali nei quali la dimensione ludica si mischia con quella dell’esistenza, dell’esperienza, della vita vissuta nelle forme e nei gesti della musica. 
S’immagina così il testo di Beckett come un osso intorno al quale si forma la carne della partitura di Kurtág. La scrittura vocale, difficilissima per le complesse nuances richieste ai solisti, sembra ricostruire all´uncinetto una rinnovata Teoria degli affetti, un complesso tessuto madrigalistico. Complessità di umano sentire anche nella scrittura strumentale, laddove un´orchestra molto ricca è quasi sempre utilizzata nel consueto stile cameristico di Kurtág, variatissima e lussuregginate in timbri spesso inusuali, che gonfiano e colorano il suono in maniera suggestiva. Come si può immaginare, tutto questo ha richiesto un lungo, meticoloso lavoro di preparazione, affrontato prima a Budapest, presente il compositore, poi rimontato sur place con l´orchestra scaligera. Dedizione per la musica, professionalità che sono emersi nelle prove dei quattro solisti, Leonardo Cortellazzi-Nagg, Hilary Summers-Nell, Frode Olsen-Hamm e Leigh Melrose-Clov. Orchestra governata dal tedesco Markus Stenz, direttore capacissimo, sin proteico, considerando l’ulteriore impegno che nei giorni di preparazione di Fin de partie era chiamato sempre in Scala a sostenere, magnificamente sostituendo il direttore titolare di un’Elektra di Richard Strauss. Qualcosa come tre anni (un pezzo di vita) è invece durato il lavoro del regista Pierre Audi, che ribalta il piano spaziotemporale della claustrofobia beckettina collocando l’azione all´esterno della casa, e dipingendo con splendidi giochi di luci metalliche una cromía raggelante, che come poche volte è capitato di vedere e interiormente sentire in sintonia con i timbri della partitura musicale. Tutto ciò, chi vorrà potrà rivederlo ad Amsterdam, essendo anche questa fatica frutto di una coproduzione, in questo caso con la Dutch National Opera. 
Qui finisce il racconto. Non senza un´amara nota polemica, proprio su quest’ultima occasione d´ascolto. Lo si scriveva in precedenza: chi ha voluto, potuto e saputo apprezzare. Scandaloso invece il comportamento di una parte del pubblico presente alla recita di Fin de partie del 20 novembre scorso: da un certo momento in poi, sfruttando il passaggio da una scena alla successiva, se ne andava, producendo una bovinamente rumorosa movimentazione verso le porte d´uscita della sala del Piermarini. Perlomeno, questo avveniva in platea. Un pubblico, italiano o straniero poco importa, che, evidentemente irretito dal malinteso di qualche pacchetto turistico, pensava di assistere a un Rigoletto in versione Godfather oppure a The Phantom of the Opera? Chissà. Certamente un pubblico che, come avrebbe detto Pierre Boulez, che negli anni Settanta fece conoscere György Kurtág in Europa occidentale, non aveva nessuna voglia di essere sorpreso e tantomeno disturbato…
Luigi Abbate

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui