21 gennaio 2019

Il Giappone a Parigi. Un resoconto

 

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Sta per concludersi a Parigi “Japonismes 2018 Les Âmes en Resonance”, organizzato dal governo giapponese in collaborazione con quello francese per commemorare il 160 anniversario della firma del Trattato di Pace, Amicizia e Commercio fra la Francia e il Giappone. Numerosi e sparsi ovunque gli eventi programmati che interessano tutti gli aspetti della cultura giapponese materiale e immateriale con installazioni artistiche, vetrine di opere storiche, proiezioni di film, spettacoli teatrali e iniziative commerciali ospitati nelle sedi più disparate per un intero anno. Uno sforzo di promozione davvero gigantesco nel quale emergono alcuni eventi.
Il faro mediatico di questa manifestazione è nella Pyramide del Musée du Louvre: Throne, un’opera di Kohei Nawa che galleggia sospesa sotto il tetto di vetro che la riflette. Un complicato lavoro di intrecci di forme simili a bolle e lunghi spuntoni curvi sporgenti, un incontro tra presente e passato che prende questa forma con l’ultimo sistema di modellazione 3D e scolpito da bracci robotici mentre la superficie scintillante in foglia d’oro è stato realizzata a mano da artigiani tradizionali giapponesi con un processo che ha richiesto mesi e intende fare eco alle collezioni del Louvre: «Vedo la posizione come un portale di collegamento tra lo stile di vita moderno e il passato – dice Nawa – dal livello della strada, entri nella piramide e per arrivare al museo scendi dove vive la storia», e invita a riflettere sull’intelligenza artificiale e sulla conoscenza muovendosi fra tradizione e nuove tecnologie.
Più complessa è la splendida mostra “Jômon – Naissance de l’art dans le Japon préhistorique” (commissario Masayuki Harada) nella Maison de la culture du Japon – opera di Yamanaka e Armstrong, frutto di un accordo franco nipponico siglato da Jacques Chirac – affacciata sul lungosenna a breve distanza dall’altra creatura di Chirac il Branly. La civiltà detta Jômon che si svolge tra l’11mila e il 400 a.C. prende nome dal termine jômon “segnato dalle corde”, cioè la caratteristica decorazione dei vasi di terracotta che si è ripetuta costante per oltre 10mila anni. La mostra, già presentata al National Museum di Tokyo, riunisce numerosi oggetti archeologici di tutto il periodo, in particolare diversi pezzi classificati tesoro nazionale tra i quali antichissimi vasi di terracotta “a forma di fiamma” fukabachi perfettamente conservati che rappresentano l’emblema di questa civiltà e i dogu, figurine, ornamenti e accessori che svelano l’arte delle origini del Giappone e la ricca vita culturale e spirituale forgiatasi durante l’era jômon. Un tesoro raro e una documentazione preziosa per conoscere una civiltà poco nota in occidente. 
Il patrimonio artistico classico giapponese viene proposto anche nei musei Guimet, Cernuschi e al Petit Palais mentre l’esposizione “Japon – Japonismes. Objets inspirés 1867 – 2018” al Musée des Arts Décoratifs, fino al 3 marzo (commissari Olivier Gabet e Beatrice Quette) è specificamente strutturata per contribuire alla diffusione del messaggio di integrazione e reciprocità fra cultura orientale e occidentale. Una mostra quasi didattica che utilizza prevalentemente l’enorme patrimonio del museo, che raccoglie oggetti e opere di ogni genere e provenienza geografica, per stabilire le forti intersezioni e le influenze reciproche fra i due mondi. 
Il termine japonisme – meno consueto di quelli storicamente stratificati di cineseria e orientalismo introdotti dal XVIII secolo quando iniziarono a sentirsi gli influssi derivanti dall’intensificarsi dei rapporti commerciali con l’Estremo Oriente e poi col Medio Oriente e l’Asia meridionale e orientale – nacque verso la fine dell’Ottocento quando l’arte giapponese cominciò ad affluire massicciamente in Europa grazie all’apertura dei porti nipponici all’Occidente; Vincent van Gogh e Claude Monet, che nutrirono un amore accanito l’uno e una passione collezionistica l’altro per quel nuovo sistema di segni, tecniche e colori contribuirono fortemente all’accendersi dell’interesse per la remota cultura che permeò il mondo delle immagini dell’art nouveau.
La Halle Saint Pierre ospita “Art brut japonais” fino al 10 marzo un evento, da che l’art brut sta acquistando un ruolo nella scena dell’arte contemporanea, con il quale il Giappone riesce a portare questo fenomeno artistico oltre le sue radici occidentali originali. Una cinquantina di creatori, offrendo una panoramica vasta e interessante di lavori provenienti da workshop o da attività autonoma e indipendente, testimoniano che in tutte le culture ci saranno sempre figure abbastanza insolite e autoreferenziali per inventare una propria mitologia e un proprio linguaggio figurativo; utilizzano molte tecniche e materiali e trasformano anche i codici più tradizionali della ceramica o degli origami. Le opere presentate nella mostra sono il risultato di nuove sperimentazioni e in particolare Shinichi Sawada, figura emblematica dell’art brut giapponese presente alla Biennale di Venezia del 2013, o Keisuke Atsumi e il giovanissimo Norimitsu Kokubo sembrano voler comprovare l’affermazione di Jean Dubuffet: “Le opere d’art brut sono una operazione artistica pura e immediata reinventata in tutte le fasi della sua creazione seguendo solo i propri impulsi”. 
Nel panorama generale, la grande mostra “Tadao Ando le défi” al Centre Pompidou (commissario Fréderique Migayrou) sull’opera dell’architetto insignito del Premio Pritzker di architettura 1995, ha offerto una chiara testimonianza del salto della cultura giapponese contemporanea dall’eleganza di maniera, immobile per secoli, in una algida e pura modernità. Articolata attorno a quattro temi principali, la forma primitiva dello spazio, la sfida all’urbano, la genesi del progetto e il dialogo con la storia, la mostra espone i grandi principi della creazione di Tadao Ando: l’uso del calcestruzzo liscio, l’importanza di volumi geometrici semplici, l’integrazione di elementi naturali nei dispositivi spaziali e l’importanza che attribuisce all’intensità dell’esperienza corporea generata dall’architettura. Una cinquantina di grandi progetti, illustrati da centinaia di disegni, video e settanta modelli originali perfetti come sculture che in questa retrospettiva ripercorrono le fasi della sua carriera professionale dalla Azuma House a Sumiyoshi (1976) alla Borsa di Commercio di Parigi (in corso) passando per il Benesse House Museum a Naoshima, l’isola dell’arte (1995). 
C’è da augurarsi che l’immagine che emerge da questa operazione, di un Giappone storicamente autoreferenziale, poi progressivamente fattosi disponibile all’apertura al progresso e all’Europa e campione della sintesi dei linguaggi moderni, riesca a prevalere su quella del tradizionalismo risorgente, propensa al protezionismo e al nazionalismo militarista del Giappone imperiale, decisa a cambiare, sull’onda della svolta isolazionista dello storico alleato d’oltreoceano, l’attuale ruolo di pace delle forze militari del paese e la propria posizione internazionale.
Giancarlo Ferulano

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