29 maggio 2019

DESIGN

 
Ritratto di Maxim Velčovský, dai musei al Salone del Mobile, ricercando la materia della contemporaneità
di Giulia Alonzo

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Artista, designer e direttore artistico di Lasvit: la personalità di Maxim Velčovský si snoda tra diversi ruoli, coniugandoli con l’eleganza che contraddistingue i suoi lavori, esposti, per esempio, nelle collezioni del Victoria & Albert Museum a Londra, della Nuova Pinacoteca a Monaco, del Museo di Arte e Design a Praga, del Museo del Design a Losanna. Nel 2007 ha vinto il premio Designer Ceco dell’Anno. Attualmente dirige il Ceramics and Porcelain Atelier (Atelier della ceramica e della porcellana) dell’Accademia di Arte, Architettura e Design di Praga. 
Partendo dal fatto che i designer per molto tempo hanno voluto stupire il pubblico, pensi che oggi possano riuscire a esprimersi attraverso la tecnologia?
«Non penso sia cambiato granché nel corso del tempo. Nella storia delle arti applicate e decorative, uno degli obiettivi dei creativi è stato quello di coinvolgere, attrarre. La tecnologia nella lavorazione è stata sempre una componente importante, ma credo che l’artigianato, il desiderio di creare con le proprie mani, non morirà mai, anzi c’è una tendenza crescente in tal senso. La generazione che per prima ha potuto verificare la potenza di Internet ora improvvisamente inizia a intagliare a mano oggetti in legno, o a imparare a disegnare o modellare. D’altra parte, i computer e gli algoritmi saranno e sono parte naturale della vita delle persone e sono già uno strumento di produzione. Tutti possono diventare designer, stampando e scansionando in 3D prodotti esistenti, sviluppandoli e aggiornandoli. Il portfolio del “dead design” è davvero ampio e dovremmo essere in grado di riciclarlo. A me piace collezionare i manufatti di altri artisti e poi, in qualche maniera, partecipare a un loro possibile sviluppo. L’appropriazione del visibile è una cosa abbastanza naturale».
Insegni alla Prague’s Academy e sei Art Director di Lasvit. Come si contaminano questi due ruoli?
«Come insegnante, mi sforzo di condividere la mia esperienza, cercando di osservare e scoprire il talento nel momento giusto, quando lo studente ha lo spazio reale per sperimentare e, soprattutto, per commettere errori. La cosa peggiore è proprio questa, quando lo studente è quasi paralizzato dall’idea che il suo lavoro debba essere perfetto. La scuola è una possibilità unica che consente di imparare dagli errori. Come art director, cerco di pensare all’eredità dell’azienda. In  Lasvit, cerco di condensare personalità molto diverse che non hanno paura di sperimentare e che portano con sé una storia forte, che riuscirà ad avvicinarsi ad altre persone anche un quarto di secolo dopo. Il nostro portafoglio non è generato da alcun robot o computer, ma da esperienze di vita. Per esempio, una volta ho sentito che David Libeskind è cresciuto in Polonia, e su uno scaffale nella loro casa ha sempre notato alcuni vasi cechi fatti con vetro tagliato. Questa informazione è diventata una ragione essenziale per la nostra collaborazione reciproca perché, in realtà, racconta molte cose di lui e del suo stile artistico. Lasvit è una piattaforma in cui possiamo permetterci di presentare approcci molto diversi. Siamo aperti praticamente a tutto ciò che dà un senso a modo nostro».
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Lasvit Frozen Composition
I tuoi lavori sono in mostra al Victoria and Albert Museum di London, al New Pinakothek di Monaco e, al Museum of Art and Design a Prague: sei riconosciuto come artista a livello internazionale. Qual è il lavoro che ti rappresenta al meglio?
«L’anno scorso, le mie collezioni Frozen e Snow sono state selezionate per la collezione permanente del Centre Pompidou. Queste sono tra Ie mie preferite, ma in fondo è piuttosto difficile fare una scelta. Con Snow spero di essere riuscito a illustrare una certa transitorietà e anche atemporalità: ho aspettato che il materiale ‘cadesse dal cielo’, ho preso la neve e ne l’ho modellata con le mani. Ho messo la neve in uno stampo e, una volta sciolta, ho creato un oggetto di porcellana con la sua memoria. L’intero processo è stato davvero magico. Qualcosa si ferma per terra e si ha un tempo molto limitato per catturarlo prima che scompaia di nuovo».
In che modo il vetro è il giusto materiale per la rappresentazione della contemporaneità?
«Devo dire che i cecoslovacchi sono da sempre votati alla lavorazione del vetro, con tecniche sempre innovative e contemporanee: oserei persino dire da raggiungere una contemporaneità eterna, ma sfortunatamente non sono stati protagonisti della Storia dell’Arte europea. C’erano personaggi come Jaroslava Brychtová o Stanislav Libenský, che hanno creato delle fenomenali e monumentali plastiques di vetro molato con un brillante uso della trasparenza e del vetro. O René Roubíček creatore delle più spettacolari installazioni di vetro degli anni Cinquanta. O Vladimír Kopecký che si concentrò sulla stratificazione di pannelli di vetro inventando la tecnica “il brutto vetro”, che in un certo senso reagisce alla bellezza subliminale e quasi terrificante della superficie del vetro. Ha iniziato a versare il vetro con i colori e nel suo modo molto speciale di svalutare le “belle” caratteristiche del materiale. E molti altri sono gli esempi di ciò che accade quando il vetro diventa un materiale senza tempo».
Theory of Light è il nome dell’evento che Lasvit ha presentato al Salone del Mobile 2019. Che cos’è la Teoria della Luce secondo te?
«La Teoria della luce raccoglie sotto un unico cappello una vasta gamma di approcci molto differenti al vetro. Piuttosto che avere un approccio scientifico alla luce, ci siamo concentrati maggiormente sui progetti degli artisti e sui loro specifici atteggiamenti. Ho un grande rispetto per la luce, perché ogni volta che la sfidavo al liceo, era sempre più veloce, mi batteva sempre. I tempi degli scherzi studenteschi… Ma tornando seri, la luce è la prima visione nella vita, ancora prima dei tuoi genitori. La luce è la causa di tutta la vita sul nostro pianeta, della fotosintesi e di tanti altri segreti nascosti della natura che tendiamo a trascurare considerandoli naturali. Conosciamo tutti il trucco con il prisma di vetro, dove il raggio di luce bianca che attraversa il prisma si disperde in uno spettro cromatico. Per me, questo è il simbolo più preciso di ciò che facciamo. Il vetro, che si trova nella via della luce, dovrebbe offrire tutti i tipi di colori, punti di vista, approcci, tecniche. Lavoriamo con un materiale che siamo in grado di modellare in oggetti molto diversi, e l’unica limitazione è la nostra immaginazione. Il risultato è uno spettro colorato di vari approcci, che noi oggi e quotidianamente coltiviamo con la giusta combinazione tra artigianato secolare, idee innovative e il contesto artigianale in sé».
Giulia Alonzo

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