09 gennaio 2003

Franco Vaccari e l’inconscio tecnologico fotografico

 
Sul finire degli anni ‘60 esplode il fenomeno dell’arte concettuale. Dopo i timidi ed isolati approcci delle avanguardie storiche, il fenomeno si istituzionalizza arrivando fino ai nostri giorni con nuove potenzialità. Nel prossimo approfondimento l’influenza di questo processo negli anni ‘80 e nella fotografia di Oliviero Toscani...

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Parallelamente alle ricerche di Mulas, di cui si è detto nel precedente approfondimento, dalla fine degli anni ’60 si fanno strada le operazioni concettuali di Franco Vaccari che fa della fotografia lo strumento pratico e teorico della propria ricerca. Vaccari (1936) risolve in maniera razionale il problema della riproduzione oggettiva nei ritratti, lo stesso problema che si era posto anche Ugo Mulas: “Quando si fa un ritratto a una persona si può assumere un’infinità di atteggiamenti verso questa persona e farle assumere un’infinità di atteggiamenti verso chi fotografa. Non c’è ritratto più ritratto di quello dove la persona si mette lì, in posa, consapevole della macchina e non fa altro che posare. Invece quando si dice che si vuole essere naturali non s’intende essere naturali verso se stessi, ma essere naturali verso la macchina, cioè verso il fotografo, come per ingannarli” (Mulas, 1973). Di più, Vaccari perfeziona il discorso di Mulas in due punti, primo elimina dalla fotografia “l’atteggiamento” di chi fotografa, eliminando per l’appunto Franco Vaccari l’operatore stesso; secondo e conseguenza del primo punto, rimuove l’atteggiamento condizionato che il soggetto ha nei riguardi del fotografo. Naturalmente stiamo parlando della famosa operazione dell’artista modenese, dell’Esposizione in tempo reale n. 4, intitolata: Lascia su queste pareti una traccia fotografica del tuo passaggio. Quest’operazione che consiste in una cabina Fotomatic installata in una stanza, sulle cui pareti campeggia il titolo dell’operazione stessa tradotto in quattro lingue, è un invito al ritratto “fai da te” in mostra alla XXXVI Biennale di Venezia del ‘72. Partendo dalla considerazione che ognuno vede ciò che sa, Vaccari, eliminando il proprio “fare materiale” (la propria percezione dell’inquadratura, con conseguente possibilità di intervento sulla ripresa), epura l’immagine dalla propria interpretazione, sollevando il soggetto da ogni influenza e soggezione, lasciandolo così libero di interpretare qualsiasi ruolo o di essere semplicemente se stesso . La posa è in ogni caso spontanea, rivelatrice della volontà di partecipare al fatto. Gli spettatori della mostra infatti si auto-espongono (nella triplice valenza del termine) diventando essi stessi gli oggetti reali, prelevati concettualmente dall’autore, su cui porre l’attenzione e le interrogazioni riguardo al processo che li ha portati lì. Lo spettatore come potenziale readyFranco Vaccari made potrebbe, in questo caso, avere delle similitudini con le superfici specchianti di Michelangelo Pistoletto, ma nel caso di Vaccari la decontestualizzazione dello spettatore è indubbiamente maggiore e non solo per lo sfondo asettico della cabina che si intravede alle spalle del soggetto, bensì per l’intervento dell’inconscio tecnologico. La nozione di inconscio tecnologico Vaccari la mutua da Walter Benjamin, dal suo concetto di inconscio ottico. Per inconscio ottico Benjamin intendeva tutto ciò che sfugge inconsciamente all’occhio umano e che la macchina è in grado di registrare e di far riaffiorare nella nostra coscienza. Vaccari sposta però l’accento ulteriormente sulla macchina, attribuendole facoltà che vanno al di la della visione umana, anche di quella inconscia: l’inconscio che viene registrato appartiene al mezzo, è dunque inconscio tecnologico. Così, il “non fare” di Vaccari non solo evita di ridurre l’oggettività dell’immagine, ma in un certo senso l’accresce epurandola dall’inconscio umano che, in una fotografia “normale”, nonostante la volontà d’obiettività, influirebbe comunque nel risultato finale. L’autonomia della macchina concorrerebbe così alla fragranza del reale, a quello che Roland Barthes un anno dopo definirà il punctum della fotografia, ossia l’effetto realtà, sganciato dal volere dell’autore che trapela da particolari casuali ed attraenti, “pungenti”, per l’appunto. L’avventura artistica di Vaccari è proseguita poi tra Comportamento (è il caso delle Esposizioni) e Narrative Art, sempre però con un utilizzo della fotografia minimalista, mediato per lo più dalla polaroid che limita fortemente l’intervento personale e da un tipo di ripresa frontale, essenziale, affine alla logica dei ready mades a proposito dei quali Vaccari scrive: “scegliendoli e isolandoli dal contesto Duchamp ha compiuto un’operazione che, in quanto scelta, distacco dal contesto e trasformazione in segno, è analoga al fotografare ” (Vaccari, 1979).

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roberto maggiori

[exibart]

3 Commenti

  1. articolo ben strutturato, ma la Esposizione in tempo reale e in particolarmodo la n.4 non si limitava a questo; l’intento di Franco Vaccari era molto più ampio.

  2. Bell’articolo. L’analisi sul mutamento dell’incidenza della tecnica fotografica è esaustivo, meno forse (ma non è una colpa)l’implicazione poetica che ha avuto l’opera di Vaccari alla Biennale. Ricordo di una operazione fatta tra inghilterra e stati uniti (mi pare) dove venivano messi in contatto telefonico persone che non si conoscevano, da un telefono pubblico della stazione dei treni. In un certo senso questa soluzione mi ha sempre fatto pensare agli scatti istantanei della macchina di Vaccari in N.4. La vicinanza indiscriminata del ritratto di persone, è simile alla conoscenza casuale della telefonata. Un incontrarsi per il volere di altri, del fato forse…ma la consapevolezza di desiderare che questo incontro avvenga. Vaccari è immagine, l’altro progetto è parola. In fin dei conti entrambe mettono in risalto un elemento comune per le forze espressive che verranno in seguito: l’interagire. Oggi il coinvolgimento fisico è una delle caratteristiche della net art, il virtuale pretende una fisicità. Interessante vero?
    adios
    K

  3. Sia nelle arti visive che nella fotografia, l’oggettività assoluta non può esistere (grazie a dio!)——————
    La fotografia rappresenta oggi la forma di comunicazione più diffusa e più efficace in una civiltà dell’immagine, per usare una definizione abusata ma appropriata, che privilegia la visione come forma di conoscenza.
    Dando per superata, in modo definitivo, senza rimpianti e con buona pace di Walter Benjamin, l’idea di un’aura dell’immagine legata alla sua unicità, anacronistica e riduttiva in una società della cultura di massa in cui tutto è alla portata di tutti, la fotografia ha minato il concetto dell’esclusività del pezzo unico fruibile da una elite ristretta e privilegiata ed ha invece affermato quello di un oggetto, artistico o semplicemente comunicativo, che, riprodotto indefinitamente in un numero illimitato di esemplari, dà vita a pezzi tutti ‘autentici’ ed in un certo senso ‘unici’.
    Per la verità va detto che Benjamin non lega alcun giudizio esplicitamente negativo ad un processo che, prima che culturale, è di natura storica e sociale e non modifica sostanzialmente il concetto di arte visiva intesa come scambio di comunicazioni mediante un linguaggio segnico, nel caso della fotografia accompagnato da un valore aggiunto rappresentato dal fatto che l’illimitatezza quantitativa si lega ad un livello qualitativo immutato dalla prima all’ultima copia – il che non avviene, per esempio, per la riproduzione litografica o serigrafia, che comporta un progressivo scadimento del risultato.
    Questa rivoluzione copernicana indotta dalla riproducibilità tecnica dell’immagine si è legata ad una crisi del concetto di soggettività causata da una supposta capacità della fotografia di riprodurre la realtà oggettiva in quanto medium meccanico e come tale delegato al compito di copiare fedelmente un modello nel modo più neutro possibile: non a caso, il termine ‘obiettivo’ è aggettivo qualificativo con significato di ‘ imparziale, oggettivo, basato sui fatti ‘ – definizione tratta da ‘ De Mauro, dizionario della lingua italiana ‘ – ed al tempo stesso sostantivo che identifica quella parte della macchina fotografica, l’obiettivo, appunto, attraverso la quale il fotografo guarda e restituisce in immagine ciò che osserva.
    Tuttavia, a partire da Cartier-Bresson e da tutta una generazione di fotografi suoi contemporanei con i quali si sono consolidati due fondamentali filoni espressivi, la documentazione – di eventi o personaggi – e la rappresentazione, per immagini, di situazioni e stati d’animo, il dibattito tra oggettività e soggettività nella fotografia pare risolto e oggi non sussistono dubbi sul fatto che l’autore inevitabilmente eserciti personali e soggettive opzioni sulla scelta del frammento di realtà che decide di fotografare, sulle condizioni di luce, sul punto di vista e su una lunga serie di situazioni variabili nelle quali trascrivere la propria visione del mondo, lo stato d’animo, le intenzioni, la cultura, il vissuto, insomma uno stile personale, soggettivizzando inequivocabilmente il risultato finale.
    “Secondo Barthes, quando si dice che la fotografia è un linguaggio si dice qualcosa di vero e falso al tempo stesso: falso in senso letterale, poiché l’immagine fotografica è analogica rispetto a ciò che rappresenta, e dunque non comporta nessuna unità elementare discontinua che si possa chiamare segno; vero, nella misura in cui nella fotografia sono soprattutto la composizione e lo stile a funzionare come un linguaggio. Lo stile ci dice così di una specificità del segno fotografico che non appartiene alla dimensione della denotazione, bensì a quella della connotazione. In questo senso, lo stile come linguaggio proprio della fotografia mette innanzi tutto in gioco la problematica della soggettività”.(Patrizia Calefato / scienze e tecnologie della moda /fotografia – Camera lucida: note sulla fotografia).
    Al pari di ogni altra forma di scrittura, la fotografia è quindi un linguaggio con spiccate diversità grafologiche legate alla presenza di un autore, del suo intelletto e della sua personale emotività che invoca il diritto alla soggettività, mezzo per articolare un discorso per immagini fatto di rimandi, metafore, allusioni nel quale, come asserisce Wim Wenders, “c’è la presenza di chi viene fotografato e di chi sceglie l’inquadratura e scatta”.

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