28 aprile 2009

fiere_resoconti Art Dubai 2009

 
Colossali opere pubbliche in stand-by ed edilizia privata ovunque in vendita. E il mercato dell’arte? In parte regge. Ma anche la fiera ricca per eccellenza mostra segni di crisi. Ed è la qualità che ne soffre di più...

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Nonostante quanto ci si ostini a ripetere Dubai è venuta a termini con la realtà, e l’ultima edizione di ArtDubai ne è stata la controprova. Certo, la cornice entro la quale i visitatori sono stati accolti può aver abbagliato più d’un ospite, ma forse è ora di chiedersi se ciò non dipenda piuttosto da certo nostro “provincialismo”, eventualmente abbinato alla rarefatta capacità dell’Oriente di condensare i propri doni e di disporli in modo talvolta fin troppo ornamentale a incantamento dei suoi visitatori.
Comparativamente parlando, non che ci si aspettasse l’elegante scatola di cioccolatini che era stata graziosamente offerta ad accompagnamento di biglietto e catalogo alla prima edizione; ma almeno il catalogo, cui hanno normalmente diritto giornalisti e professionisti dell’arte, questo sì. Alla sua terza edizione, l’organizzazione di ArtDubai fa uno scivolone colossale, di classe in primis (con cataloghi a pagamento persino per gli invitati al vernissage, come d’altronde è avvenuto anche da queste parti, a Roma e Milano), che riflette evidentemente una difficoltà inattesa a livello di mezzi, oltre che una serie di errori di valutazione logistici. Minimizzati, quasi dileguatisi gli sponsor, resta l’ambizione destituita di reale sostanza.
Gohar Dashti - Today’s life and war - 2008 - courtesy Kashya Hildebrand, Zurich
Anche quest’anno, numerose le iniziative a margine: il programma dell’Art Forum culminante nell’annuncio della struttura dei due Padiglioni Uae (uno nazionale e l’altro, ben più interessante, finanziato dall’ADACH – Abu Dhabi Authority for Culture & Heritage e curato da Catherine David) alla prossima, imminente Biennale di Venezia; la presentazione al pubblico dei tre lavori vincitori dell’Abraaj Capital Art Prize, primo nucleo di una collezione permanente di artisti dell’area MENASA – Middle East, North Africa & South Asia; il Grand Tour d’Oriente organizzato per collezionisti e vip, traghettati da Doha in Qatar ad Abu Dhabi, passando per Dubai e Sharjah.
Le proiezioni fornite alla vigilia della fiera prevedevano per l’edizione 2009 un netto incremento nel numero di visitatori; quelle diffuse a posteriori riconfermano invece l’affluenza di circa 15mila persone, già attestata nel 2008. Quanto al volume di vendite, la battuta d’arresto era più che attesa a Dubai dove, all’ultima asta d’arte targata Bonham’s, la maggior parte dei lotti era andata invenduta. Gonfiato, sovradimensionato, artificialmente pompato, il mercato locale – a partire dall’immobiliare – si è vaporizzato, nonostante l’immagine diffusa dai media cerchi di minimizzare la crisi di fiducia, specie finanziaria, cui l’Emirato deve far fronte. In ritardo di almeno sei mesi, la stampa internazionale inizia finalmente a chiedersi cosa stia accadendo a Dubai, dove la maggior parte dei progetti è stata bloccata, messa in attesa, e la middle class si trova a dover far coincidere uno standard di vita da parvenu con un’oggettiva contrazione delle risorse.
Symrin Gill - A small town at the turn of the century - 1999-2000 - courtesy Breenspace, Sydney
Qualche settimana prima dell’inaugurazione circolava la notizia che alcuni galleristi avessero fatto marcia indietro e rinunciato a partecipare alla fiera. E infatti, nonostante si sia cercato di salvare le apparenze, qualche smottamento ha ridotto la “tenacità” della manifestazione. 68 le gallerie presenti, in rappresentanza di 18 Paesi (dieci in meno rispetto al 2008), con vistosi rattoppi, opportunamente non dichiarati: gli stand si allargano mentre alcune gallerie dei Paesi del golfo (Bahrain e Arabia Saudita), non annunciate sulla carta, fanno la loro defilata comparsa.
Certo è che quest’anno un’indagine di mercato sembra aver preceduto la selezione delle opere da proporre alla clientela locale. Con indulgenza e auto-indulgenza, numerose gallerie espongono lavori che immortalano cavalli e falchi, i simboli prediletti dalla popolazione autoctona, la sola che possa permettersi di investire consistenti quantità di denaro nell’acquisto di opere d’arte, in un momento in cui gli appartamenti e le villette letteralmente si svendono.
Il decorativismo predomina in quasi tutti gli stand. Perché i galleristi vanno in fiera con l’aspettativa di vendere, e per vendere a Dubai bisogna andare incontro a un gusto ancora immaturo rispetto alla scena artistica mondiale. Ecco perché, forse, i pochi lavori che sorprendono i visitatori locali sono spesso datati (l’Armadio Rosso di Plessi del 1990, ad esempio), che in qualche misura possono essere assimilati con maggior facilità. Fra i temi che sempre si possono riconoscere, quasi ci fosse una sorta di linea rossa tracciabile nelle scelte di chi espone – oltre all’indulgenza decorativa che predilige flora e fauna, proposte in svariati media – il sorprendente motivo bellico, un argomento col quale, con maggior difficoltà di quanto si pensi in occidente, il Medio Oriente ancora fatica a confrontarsi con il dovuto distacco.
Araya Rasdjarmrearnsook - Millet’s The Gleaners and Thai farmers - 2008 - photo Cristiana de Marchi
Fra i pochi lavori da segnalare, illustrativi delle diverse vie percorse dai galleristi, ecco allora Jackson Hong con la serie In case of emergency (Michael Schultz), in cui due accette con una scritta esplicativa (non si sa quanto, una essendo in latino) investigano l’atavico bisogno di autodifesa, riconducendolo a una modalità individualistica che forse descrive meglio l’Occidente che il Medio Oriente. Mentre la tenda di Aya Haidar (Bischoff/Weiss) si affianca alla tragedia del popolo palestinese con radicalità, ma senza rinunciare a una meditata delicatezza. Il bel lavoro di Araya Rasdjarmrearnsook, Millet’s The Gleaners and Thai farmers (Gimpel Fils), minimalista nell’approccio e altamente riflessivo negli esiti, sembra trovare un’eco nelle convincenti fotografie dell’australiana Symrin Gill (Breenspace), oltre che nel lavoro di Lamya Joreige, Man walking (Galerie Tanit), due artiste peraltro presenti anche alla Biennale di Sharjah. E ancora le foto di Gohar Dashti (Kashya Hildebrand), fra gli artisti iraniani qui sempre molto apprezzati e in genere venduti bene, uno dei più persuasivi.
E gli italiani? Giorgio Persano e Galleria Continua, entrambe veterane di ArtDubai, hanno optato per i grandi formati e i grandi nomi (Mario e Marisa Merz, Lida Abdul, Subodh Gupta, Mona Hatoum, Daniel Buren, Anish Kapoor, Michelangelo Pistoletto), con scelte orientate verso un pubblico locale attento e “artisticamente educato”. Francesca Minini, che “sostituisce” la romana Oredaria, punta su due superstar, Ghada Amer (qui presente con For the love of flowers e Le salon courbé, venduti alla figlia di Sheikh Mohammad) e Kutlug Ataman (con un nevrastenico lavoro sul potere della traduzione, English as a second language), vincitore dell’Abraaj Prize e quindi “imperdibile” per i collezionisti locali.
Fabrizio Plessi - Armadio Rosso - 1990 - photo Rebecca De Marchi
Il tanto atteso disvelamento dei progetti vincitori del premio – mediatizzato soprattutto in virtù del suo ammontare astronomico, senza quasi indagare la qualità dei progetti selezionati – ha riservato alcune sorprese. Kutlug Ataman (curatrice, Cristiana Perrella) non sembra aver completamente esplorato le potenzialità del video realizzato per l’occasione, Strange Space, che – ispirandosi a una leggenda mesopotamica – ritrae l’artista errante a piedi nudi nel deserto turco. La performance, in cui lo sguardo dello spettatore risulta strutturalmente veicolato, mira a investigare il rapporto fra Oriente e Occidente, un rapporto di “tensione”, secondo Ataman, da valutare in termini positivi, in quanto terreno fertile: un atteggiamento fin troppo qualunquista.
L’iraniana Nazgol Ansarinia (Leyla Fakhr, curatrice) ha svelato il suo chiacchieratissimo tappeto (Ryhme and Reason), che riproduce decine di scenette quotidiane della moderna Persia: una famiglia di cinque persone ritratte su una motocicletta, scolari in fila, donne sedute a chiacchierare, il pasto di una famiglia… Ancora un dualismo, quello che pone a confronto tradizione stereotipata e vita vissuta, modello e comportamento, passato e presente; ma anche una linea di continuità fra tradizione e modernità.
La terza vincitrice, Zoulikha Bouabdellah (curatrice, Carol Solomon), presenta un’installazione luminosa in cui le luci, appese al soffito e riflesse sul pavimento sottostante, mirano a ricreare il cielo notturno, su cui il visitatore è invitato a camminare. Farhad Moshiri - Diamond Head - 2007 - Sotheby’s DohaAnche in questo caso, le suggestioni d’Oriente predominano e l’auto-indulgenza dell’artista, la sua retorica naïveté la trascinano a realizzare la proiezione di un’“idea celeste” entro uno scenario sdrucciolevole, sul quale effettivamente è scivolata.
Un senso di desolazione, non dichiaratamente cercato, suggerisce infine Mapping Palestine, il più atteso dei progetti a latere, cui si guardava come a un’anticipazione del padiglione della Palestina alla Biennale di Venezia. Concepita in tre sezioni – video, espositiva e documentaristica – questa iniziativa tradisce la povertà di mezzi a disposizione dei curatori, ma rivela anche la povertà intellettuale degli organizzatori di ArtDubai, che avrebbero potuto devolvere parte del loro pur sempre considerevole budget a sostegno di alcuni progetti specifici.
La domanda circa l’opportunità di ridefinire le regole d’ingaggio nasce spontanea e s’impone doverosamente, guardando allo scarto esistente fra i lavori premiati dall’Abraaj Prize (veramente sopravvalutati) e il dignitoso ma pericolante allestimento delle opere degli artisti palestinesi. Perché se all’arte riconosciamo solo la valenza estetica, con tutta la labilità dei margini critici connessi a tale approccio, allora forse questa fiera d’arte non ha diritto all’aggettivo “contemporanea”.

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cristiana de marchi


dal 18 al 21 marzo 2009
Art Dubai Fair 2009
Madinat Arena – Dubai
Info: info@artdubai.ae; www.artdubai.ae

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