16 dicembre 2008

arteatro_festival Vie – Scena Contemporanea Modena e provincia, sedi varie

 
Chiude la quarta edizione di Vie - Scena Contemporanea. Senza tracciare un bilancio complessivo del festival, un rapido sguardo sulle diverse modalità interpretative dei rapporti tra scena e presenza...

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In un’ottica non provinciale e sempre aperta agli stimoli esterni, partendo da Modena ma allargandosi ad altri luoghi della regione, Vie – Scena Contemporanea ha riproposto nell’edizione appena conclusa un viaggio che, attraverso le più efficaci punte della creatività emiliano-romagnola, approda a significative novità internazionali.
Durante il percorso, parallelamente al filone dedicato alla memoria di Thierry Salmon, il festival mette tacitamente in gioco anche il tema del corpo dell’attore e delle diverse possibilità di esplorazione della presenza scenica, attraverso una pluralità di strategie operative che oscillano tra interazioni tecnologiche, nudità della performance, sparizioni, moltiplicazioni, eccessi, mancanze.
A colpire immediatamente per la sua potenza visiva è la modalità scenica di Inferno di Romeo Castellucci, in cui una folla strisciante e variopinta di dannati fa da costante contrappunto alla monocromatica solitudine creativa dell’individuo-artista (lo stesso Castellucci, che entra presentandosi in apertura, l’Andy Warhol dei ripetuti riferimenti che compare in chiusura). Una folla che, nonostante il suo imporsi come protagonista assoluto, non si lascia identificare con un soggetto collettivo, ma si configura piuttosto come una massa di corpi solitari, le cui relazioni si generano nel reciproco incontro. In una successione di scene corali, abbracci e simboliche uccisioni, si alternano a salite e cadute, in una frammentazione e moltiplicazione dell’azione che individua nella condanna a ripetersi e a ripetere l’inferno della creazione artistica.
Romeo Castellucci - Inferno
Mentre in Inferno è la massa che conquista il ruolo predominante, il singolo diviene centrale nel lavoro della Compagnia Khroma di Bruxelles. Definito dalla compagnia stessa “opera per voce sola, dialogo interiore per un corpo ed elementi naturali”, Ismène, in un connubio di approcci artigianali e tecnologie avanzate, mette in scena un solo corpo (della cantante e performer Marianne Pousseur), una sola voce. Voce-suono che lo denuda e dilata al di là della propria pelle; corpo che, lottando con gli elementi scenici e vestendosi con essi, diviene infine supporto del testo su cui la voce si declina. Il corpo si scopre amplificato, sdoppiato, concesso in un dono totale di sé, esaltato dalla visione distorta e moltiplicata dal riflesso dell’acqua.
Dall’elemento eccedente all’elemento assente: il passo successivo è lasciare tutto lo spazio alla voce, eliminando il corpo o lasciandolo semplicemente immaginare. Teatrino Giullare, formazione che da tempo esplora l’espressività tramite il limite fisico, si posiziona fin dall’inizio in questa traiettoria, servendosi per Lotta di Negro e Cani dell’omonimo testo del drammaturgo francese Bernard-Marie Koltès, che racconta di un corpo scomparso. Di riflesso, la scena offerta da Giulia Dall’Ongaro ed Enrico Deotti è quasi totalmente buia e ricoperta da una cortina che, attraverso un foro a emiciclo, lascia intravedere solo frantumi: mani, nasi, piedi, particolari ingranditi e oggettivati sotto un fascio di luce fisso e straniante. La presenza si riduce quindi a gioco di ombre, scuotimenti, rifrazioni sul fondo che diviene il campo oscuro, la notte, tessuto in cui anche i corpi degli attori scompaiono.
Teatrino Giullare - Lotta di Negro e Cani
Ulteriore modalità di dileguamento è quella di La più piccola distanza di Pathosformel, dove il corpo ha abdicato in favore di forme pure, cedendo la scena a un esercito bidimensionale di testimoni della vita quotidiana: quadrati colorati che appaiono in scena a volte esitanti, altre spediti, solitari o in sincronia, per scorrere nuovamente fuori, reggendosi su un sistema di fili paralleli. Tessere inquiete di un mosaico senza figurazione, i quadrati organizzano una danza senza spessore muovendosi in un tableau vivant di piccole geometrie, puri rapporti ritmici o notazione simil-gregoriana, che da un gigantesco pentagramma si snoda seguendo (o anticipando?) un accompagnamento musicale ambiguamente sincronico. In essi, nonostante la drammaturgia voglia svuotarsi dalla componente mimetica, riconosciamo talvolta comportamenti quasi umani, dinamiche di un gruppo di ignoti cittadini, con le loro infinite possibilità di relazioni.
Pathosformel - La più piccola distanza - photo Antonio Ottomanelli
Oggi il corpo scenico si racconta così, monade che rimbalza tra uno e molteplice. E se, come diceva Warhol, “la più eccitante attrazione è esercitata da due opposti che non si incontreranno mai”, forse proprio nella minima distanza in cui si muovono le masse di Castellucci e i non-corpi di Pathosformel si nasconde il segreto della profonda attrazione che due impianti così diversi riescono a loro modo a generare.

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Info: www.viefestivalmodena.com

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