10 ottobre 2018

TEATRO

 
A Parigi per il Festival d'Automne, dove il teatro è ancora sociale e “socializzante”
di Giulia Alonzo

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Era il 1970 quando il Presidente del consiglio francese Georges Pompidou chiese al proprio Ministero della Cultura di progettare un festival multidisciplinare per ripensare una Parigi come centro della cultura internazionale. Un’idea audace in cui lo stato si mostrava lungimirante e attento ai cambiamenti sociali in atto. Due anni dopo, nel 1972, con la collaborazione del compositore polacco Marcel Landowski e di Janine Alexandre-Debray, nasce il Festival d’Automne, che Michel Guy dirigerà fino al 1990, all’inizio dedicato soprattutto alla danza e presto diventato uno dei festival di teatro e arti performative più importanti del mondo. Nel programma della 47° edizione codiretta da Marie Collin e Joséphine Markovits dal 10 settembre al 31 dicembre 2018, oltre alla concentrazione di nomi di prestigio della scena artistica contemporanea internazionale, colpisce la dislocazione degli eventi. A Parigi si contano 75 appuntamenti mentre tra la banlieue e l’Île-de-France sono 620 in poco più di tre mesi: spettacoli in contemporanea in diversi quartieri della città, anche molto lontani dal centro con un reale coinvolgimento della periferia.
Tra alti palazzoni di cemento grigi, lungo il viale alberato che prende il nome di Lenin, a cinque minuti a piedi dal terminal della linea 5 della metropolitana, sorge il centro MC93 – Maison de la Culture de Seine-Saint-Denis, nato nel 1980 per portare nel quartiere uno sguardo artistico nuovo. Qui è andato in scena Le Père, tratto da L’homme incertain di Stéphanie Chaillou, messo in scena da Julien Gosselin, attore del nuovo teatro francese. In una sala completamente buia, la voce calda e monotona di Gosselin si pone alcune domande esistenziali su quello che significa essere padre oggi in un monologo che mette in dubbio il fatto che lo spettacolo sia una “lettura al buio”. Piano piano la luce però inizia ad alzarsi e in jeans e camicia si delinea anche il volto di questo padre, solo con sé stesso in un mondo pieno di incertezze. Una sequenza di parole luminose proiettate sullo sfondo si sussegue fino a quello che potrebbe essere un finale. Ma poi l’attore, tornando in scena e camminando sopra un prato verde, chiude il cerchio facendo parlare i figli e i loro ricordi. Anche il pubblico aspetta ad applaudire.
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Ph Dorothée Thébert Filliger
Al Centre Dramatique National Nanterre-Amandiers, addossato al parco in prossimità della cittadella di Picasso – con i suoi grattacieli colorati – nella periferia ovest di Parigi, è andato in scena uno degli spettacoli più attesi del festival. Milo Rau ci ha abituati a un teatro del reale, dove la telecamera diventa uno strumento di indagine e il video, che trasmette dirette, registrati e primi piani degli attori, il mezzo di diffusione della messinscena del reale: lo spettatore si ritrova così immerso in un gioco metateatrale che coinvolge la drammaturgia e la rappresentazione. La Reprise – Histoire(s) du théâtre (I) è il primo capitolo di un’inchiesta sulla nascita della tragedia a partire da fatti di cronaca realmente accaduti: Rau si interroga sulla necessità di mettere in scena la violenza e sul modo in cui farlo. Lo spunto è il fantasma dell’Amleto di Shakespeare: qui siamo però nella Liegi al tempo delle pari opportunità, della crisi economica e della disoccupazione. Il giovane Ihsane Jarfi viene ammazzato di botte da un gruppo di conoscenti per la sua omosessualità, poi abbandonato per strada e ritrovato solo giorni dopo da un uomo che portava a passeggio il cane. In cinque capitoli il regista svizzero agisce sulla sensibilità del pubblico, prima con una violenza estrema e intollerabile, poi facendo riflettere sul nostro ruolo, quello di spettatore della scena e della vita. 
Tutto questo mentre nella sala accanto Laetitia Dosch con Hate è già sul palco, allestito come un maneggio, vestita solo con un paio di scarpe e una cintura piena di zuccherini e carote. Non è sola. Con lei in scena c’è Corazon, il suo cavallo bianco. Lei si sfoga e gli confessa i suoi dubbi di giovane donna che avanza verso la mezza età. Il cavallo però inizia a risponderle e si rivela pure attratto dal fondo schiena della ragazza. Della serie ”l’amore arriva quando meno te lo aspetti”, in una Bella e la Bestia 2.0, la Dosh mette in atto un inusuale corteggiamento nel quale si cerca di superare le diversità fisiche, ma a volte le dimensioni contano. 
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Copyright Takachi Horikawa
Nella sua tradizione di apertura internazionale il festival ha dedicato un’ampia retrospettiva al teatro giapponese. Nel grande T2G – Théâtre de Gennevilliers, questa volta nella periferia nord di Parigi, il regista e psichiatra Kurô Tanino ha proposto The Dark Master opera iperrealista in salsa agrodolce sulla manipolazione mentale. Un giovane globetrotter entra in un ristorante di Osaka, gestito da un uomo malato e frustrato. Con l’inganno l’uomo installa un microfono in un orecchio del giovane convincendolo a occuparsi del ristorante in sua assenza. Inizia così un rapporto di potere che piano piano plasma il ragazzo trasformandolo in burattino senza personalità dai gesti prima misurati e ossequiosi poi sfrontati e arroganti. Questa versione stile Matrix di Masterchef diventa la metafora di una società che cucina lentamente le sue vittime verso il vortice di una corruzione senza scampo: Tanino porta in scena un’ora e mezza di atti ripetuti e quotidiani ma meticolosamente studiati in cui ci si domanda alla fine se il Master sia reale o solo una giustificazione del proprio Ego. 
Nel quartiere di Place de la République Anne Teresa De Keersmaeker, creatrice di un classico della danza moderna come Rosas danst Rosas, ripropone la Slow Walk, il flash mob in cui il pubblico, partendo da cinque punti di ritrovo sparsi nel quartiere, procede lentamente in una marcia comune. All’inizio si rischia di perdere l’equilibrio, ma una volta preso il ritmo il corpo si rilassa e il cervello si svuota e inizia a lavorare autonomamente scoprendo nuove prospettive interiori ed esteriori. La realtà si arricchisce di mille dettagli e il vicino sparisce. Solo durante l’attraversamento pedonale la velocità torna quella di sempre. Meglio non farsi investire dai frettolosi automobilisti parigini…
In Francia il teatro è ancora un fenomeno sociale e socializzante. Le strutture sono pensate per accogliere i bisogni del nuovo millennio: sale lettura, biblioteche, librerie e bar – sempre pieni prima dell’inizio e dopo la fine dello spettacolo – in cui incontrarsi e condividere aspettative e impressioni, anche e soprattutto lontano dal centro della metropoli. In Francia, la patria della ”eccezione culturale”, il teatro continua a godere di un robusto sostegno dal pubblico, dalle istituzioni e dai privati. E viene usato in progetti di integrazione sociale e riqualificazione urbana. E in Italia?
Giulia Alonzo

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