01 novembre 2018

TEATRO

 
Cinque “Giuliane” per “Quasi niente”: storie di ordinaria rottura secondo Deflorian-Tagliarini
di Valentina Cirilli

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Succede in Giappone. Ogni volta che un oggetto delicato come un vaso o una tazza cade incontrando inevitabilmente la sua rottura, ci si preoccupa di recuperarne ogni frammento; non con l’idea di disfarsene, al contrario: ogni pezzo di ceramica viene abilmente ricongiunto all’altro e sigillato con l’oro. Quel corpo rende così manifesto ogni segno di rottura. L’esibizione della pregevolezza delle cicatrici inscrive quella stessa materia all’interno di un piano espressivo che promette rinascita e nuova vivificazione. 
Nel procedere difficoltoso di un passo costretto ad un ritmo che non riconosce più come suo, l’equilibrio traballa fino a toccare il crollo; e allora l’arte del riparare sé stessi diviene tanto necessaria quanto quella di celebrare le proprie fratture.
Il duo Deflorian-Tagliarini, a Romaeuropa con il nuovo lavoro Quasi niente, nel tentativo assolutamente fortunato di sviscerare, ancora una volta, l’intimissima materia umana nel suo farsi prodotto del rapporto più che mai lacerato tra individuo e alterità. Un conflitto insanabile quest’ultimo che attraversa il contesto sociale in cui viviamo il quale, inospitale ed ostile, genera una condizione di emarginazione e, per dirla con le parole di Mark Fisher, di “Depressione collettiva”. 
Per Quasi niente la ricerca del duo ha come punto di partenza Deserto Rosso e la poetica, così tristemente attuale, che il regista Michelangelo Antonioni condensa perfettamente nel personaggio di Giuliana. Impersonata nella pellicola dall’indimenticabile Monica Vitti, Giuliana è il personaggio emarginato per eccellenza: sola, disorientata nello spazio grigio e desertificato dall’impatto dell’epidemia capitalista, circondata da un mondo che la vede ma non l’ascolta, essa è la sintesi più esatta della fatica dell’esistere. Giuliana è l’espressione di un senso di inadeguatezza che pervade l’animo di chi non può più superare la frattura profonda fra l’intima pulsione dell’io e l’identità imposta dal “potere di classe” (Fisher): «Mi sembra di avere gli occhi bagnati. Ma cosa vogliono che faccia con i miei occhi? Cosa devo guardare?», lamenta in una delle scene più pregnanti del film.
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Quasi niente, foto di Piero Tauro
Sul palcoscenico del Teatro Argentina le Giuliane sono almeno cinque: Monica Piseddu, Daria Deflorian, Francesca Cuttica, Benno Steinegger, Antonio Tagliarini. La materia autobiografica di ciascun attore-personaggio si intreccia con la potenza creatrice del personaggio di Antonioni fino al totale superamento del confine uomo-donna. Cinque figure si stagliano piccole e intimorite da una scena che è stata spogliata da fondali e quinte teatrali, ad eccezione di un pannello trasparente che separa a metà il palcoscenico e risparmia solo pochi oggetti: una poltrona, una cassettiera e un armadio. Sulle note di Il surf della luna, le stesse che fanno da accompagnamento al film, uno ad uno i personaggi superano il filtro nebbioso dando vita a delle micro drammaturgie germogliate dal terreno comune di un’inettitudine esistenziale. Racconti che ci parlano di quel mancato diritto – descritto da Mark Fisher nel saggio Il buono a nulla di cui Daria Deflorian legge un estratto – “Di essere qui, ora, di abitare questo corpo, di essere vestito in questo modo” la cui estenuante conquista si risolve in vertiginoso sentimento di panico e crisi di nevrotica afasia. È il sipario aperto su un teatro del disagio che, a tratti, sfiora la vivacità di una stand up comedy e le atmosfere cupe e sospese del teatro beckettiano. “E se domani svegliandoci decidessimo di non starci più? Di chiuderci in bagno anche solo per un’ora, come rifiuto del mondo?” si chiede Francesca, dopo aver trasferito la sua ansia incontenibile percuotendo con forza brutale una cassettiera. Di lì a poco Antonio afferrerà una sedia e prenderà a girare vorticosamente su sé stesso in un moto compulsivo e incontrollato. Ora si che va meglio. “Quando non sono malata non so cosa farmene di me, mi sento poco interessante, senza sale, quando non ho mali che mi elettrizzano sono spolpata dal non sentirmi, non percepirmi, dal vagare, svagata” confessa Daria. 
Quasi niente racconta di una realtà parallela nella quale la nevrosi assurge a punto di verità e la rottura è il segnale coraggioso di una macchina umana che si è appena messa in moto. Una volta riparata, anch’essa come un vaso giapponese, farà mostra delle sue dorate cicatrici, senza più rincorrere quello “Spazio di disagio esistenziale per tornare a immaginare di essere normale”.
Valentina Cirilli

un progetto di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini
liberamente inspirato al film Deserto rosso di Michelangelo Antonioni
collaborazione alla drammaturgia e aiuto regia Francesco Alberici
con Francesca Cuttica, Daria Deflorian, Monica Piseddu, Benno Steinegger, Antonio Tagliarini
collaborazione al progetto Francesca Cuttica, Monica Piseddu, Benno Steinegger
consulenza artistica Attilio Scarpellini
luce e spazio Gianni Staropoli
suono Leonardo Cabiddu e Francesca Cuttica (Wow)
costumi Metella Raboni

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