29 novembre 2018

IPERTEATRO 2018

 
Kepler452, ovvero il nuovo teatro sociale e partecipato. Da Bologna
di Giulia Alonzo

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Il gruppo bolognese Kepler 452 è il protagonista della terza puntata: con la loro prima produzione La rivoluzione è facile se sai COME farla (2016), in collaborazione con Lo Stato Sociale, Nicola Borghesi, Enrico Baraldi, Paola Aiello si sono imposti sulla scena italiana come esponenti di un nuovo teatro sociale e partecipato. Dal 2014 organizzano il Festival 20 30 per dare voce ai giovani e avvicinarli, tra una birretta e uno spettacolo, al mondo del teatro, con laboratori gratuiti e una condirezione condivisa.
Chi è Kepler 452?
Nicola Borghesi: «Kepler 542b è un pianetino molto molto lontano scoperto di recente, non raggiungibile coi mezzi attuali, che si ritiene abitabile. È stato scoperto con il telescopio Kepler, quindi dà l’idea di uno strumento che permette di guardare un’altra realtà, un mondo lontano ma possibile. Kepler 452 è anche un gruppo. Il nucleo è composto da Nicola Borghesi, Enrico Baraldi, Paola Aiello, ci sono Michela Lucia Buscema per la parte organizzativa e una serie numerosa di persone che gravitano attorno: Letizia Calori e Luigi Greco per le scenografie, mentre per le luci lavora spesso con noi Vincent Longuemare, per la parte musicale Alberto Guidetti dello Stato Sociale, recita con noi Lodo Guenzi il frontman dello Stato Sociale, Chiara Caliò si occupa dei video. Abbiamo molti amici».
I Rimini Protokoll – uno dei gruppi di punta della ricerca internazionale –  si definiscono “Experts of everyday life”. Anche voi portate in scena attori non professionisti.
N.B: «Preferiamo il termine di Gerardo Guccini “attori mondo”, ovvero definire una persona per ciò che è e per il mondo che porta con sé, come nel caso del mondo del giardino di Giuliano e Annalisa, i protagonisti del nostro Giardino dei ciliegi. Ci sembra che la realtà abbia una forza autonoma sufficiente per creare teatro e ci piace portare in scena i testimoni delle proprie storie e costruire attorno a loro una circostanza teatrale che ne giustifichi la presenza e la renda reale e al tempo stesso metaforica.Il progetto ci porta a individuare i nostri “attori mondo”: per il Giardino dei Ciliegi siamo partiti da un testo di riferimento, abbiamo cercato nella trama un ingaggio semplice, luoghi dell’anima scomparsi per motivi economici e i loro abitanti. In altre produzioni abbiamo lavorato sui luoghi: in Comizi d’Amore abbiamo ripreso le domande che Pier Paolo Pasolini ci poneva cinquant’anni fa, quindi il criterio d’ingaggio è stato trovare persone con storie per noi interessanti ma che abitassero quei luoghi. In altri casi abbiamo scelto in base al tema, quindi abbiamo cercato persone rivoluzionarie».
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Foto Officina Immagine Bologna
Una volta che li individuate come li portate in scena?
N.B: «Per ogni persona c’è un criterio differente per convincerla a entrare in scena. Di solito li portiamo a rendersi conto dell’importanza della storia che hanno da raccontare, della loro urgenza e del loro bisogno di condividere con il resto del mondo ciò che li riguarda profondamente. È un processo di seduzione, sia nel senso etimologico del termine, condurre a sé, sia nel senso suo più comune, di reciproca fascinazione e di costruzione di una relazione vera. L’incontro ci deve riguardare: in scena raccontiamo quel che ci ha affascinato e perché per noi è fondamentale essere lì insieme a loro e con il pubblico in quel momento. L’idea è di costruire un pezzo di vita che si cammina insieme. Per il Giardino dei ciliegi ci sono voluti due anni per creare le condizioni di fiducia, di ascolto e di condivisione della nostra storia di teatranti e della loro storia di abitanti del Giardino. Abbiamo affrontato diverse fasi: dopo un primo studio abbiamo ripreso il progetto quando ERT ci ha chiesto di renderlo una produzione vera. Ci siamo chiusi in casa per una settimana a studiare il testo di Cechov a cercare di capirlo e a esplorare le associazioni tra le due storie».
Gli attori mondo recitano seguendo un copione? 
Enrico Baraldi: «Il copione è un oggetto scenico, l’attore/non attore lo porta con sé e lo consulta sul palco. Giuliano e Annalisa leggono alcuni brani del testo di Cechov, ma nelle altre scene vanno a braccio. Col tempo la situazione si è definita, ma all’inizio era molto labile. Non indichiamo mai ai nostri “attori-mondo” come dire o fare le cose, è fondamentale non modificare la loro identità e il loro modo di stare sul palco. Spesso partiamo da conversazioni che registriamo attorno a un tavolo, che poi diventano la base per la costruzione di una drammaturgia. Creiamo un canovaccio di botte e risposte che rileggiamo e rielaboriamo insieme. Quindi siamo noi che impariamo qualcosa dai non attori che coinvolgiamo».
Cosa intendete per arte partecipata e come la mettete in atto? 
N.B: «Non so se Kepler faccia teatro partecipato, anche se forse è l’etichetta alla quale siamo più vicini. Una spettatrice ci ha fornito ottimi motivi per cui facciamo performance: la presenza di attori/non attori in scena, la relazione con animali, la presenza di spettatori in scena, l’idea di non avere al centro dell’opera un testo ma un tessuto di intrecci interni alle scene che diventano una drammaturgia. Seguiamo delle intuizioni che ci portano sempre fuori dalla sala teatrale, prima di rientrare. Ma non c’è una definizione precisa, per fortuna. È un gran casino: il modus operandi cambia a seconda dell’oggetto, perché ogni situazione deve essere trattata in modo diverso. A volte ci sono dei professionisti in scena, a volte no, a volte ci sono solo voci, altre ci sono i video. E.B: «Il nostro è teatro partecipato perché ci sono delle persone che non si occupano di teatro coinvolte nel progetto. O siamo noi che partecipiamo alla loro vita».
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Foto di Chiara Caliò
I temi come li scegliete?
N.B: «Discutiamo senza perimetri di quello di cui vogliamo parlare, di cui abbiamo bisogno di parlare, è una pratica fondamentale della compagnia, sia che siamo solo in tre sia che siamo in formato allargato. Dopo di che lo spettacolo è in discesa, perché i passaggi chiave sono due: capire cosa vuoi raccontare e capire con chi ne vuoi parlare. Il resto è tutto residuale».
Che cos’è Festival 2030? 
E.B: «È un festival di teatro che si rivolge a chi ha tra i 20 e i 30 anni e si esprime attraverso la loro voce. L’ha fondato Nicola cinque anni fa, io ho collaborato fin dall’inizio. È stata una delle prime esperienze che abbiamo fatto insieme, attraverso cui ci siamo conosciuti professionalmente. Adesso che Nicola è over 30 lo dirigo io, siamo abbastanza integralisti nelle nostre scelte. Festival 2030 parte dall’assunto che c’è un vuoto di narrazione, un vuoto di pubblico e un vuoto di scambio attorno alla nostra generazione, che non contempla il teatro nel suo orizzonte culturale e viene additata da chi ha il doppio della nostra età come generazione che non studia e non lavora. Il festival, che si svolge tra l’Arena del Sole e l’Oratorio di San Filippo Neri, un oratorio barocco del Settecento, è una risposta entrando in dialogo e mostrando la nostra identità. Alle cinque compagnie che invitiamo ogni anno al festival chiediamo di tenere un laboratorio di quattro giorni in cui condividere con un gruppo di dieci ragazzi una poetica, una metodologia che serva a raccontare chi siamo. Assistiamo a un affresco dell’identità dei partecipanti che diventa anche un frammento di identità della nostra generazione. 2030 è anche il tentativo di creare una comunità di persone che individuano nel teatro il luogo dove tessere delle relazioni, tanto che attorno al festival si è creato Avanguardie 2030, un gruppo di una ventina di ragazzi particolarmente attivi durante la rassegna che ora collabora e condivide con me la direzione artistica del festival, ormai è la direzione artistica di un gruppo di amici. Vediamo gli spettacoli poi andiamo a bere le birre insieme».
N.B: «Per rubare a Lorenzo Donati un’espressione brillantissima “creiamo grupponi improbabili”».
Qual è il rapporto tra Kepler452 e Lo Stato Sociale?
N.B: «Io e Lodo siamo amici da quando avevamo dodici anni, quindi da vent’anni. Ci siamo conosciuti all’esame di musica della scuola Guido Reni di Bologna, poi siamo cresciuti insieme e abbiamo frequentato insieme anche l’Accademia di Arte Drammatica Nico Pepe di Udine, dove c’era anche Paola Aiello che è di Gorizia. Poi le nostre strade si sono divise e Lodo è diventato una rockstar. Però quando è nata Kepler è stato inevitabile tornare a fare qualcosa insieme: siamo un gruppone improbabile che unisce il mondo indie rock pop e uno strano modo di fare teatro. La prima operazione che abbiamo fatto insieme è stata La rivoluzione è facile se sai COME farla, lo spettacolo che ha debuttato al Festival 2030 del 2015 e che poi ha fatto una quarantina di date: abbiamo costruito una tournée in un mese, cosa impensabile per i ritmi teatrali. Infatti è stata organizzata da Antenna, un’agenzia di booking musicale: così abbiamo circuitato nei posti dove passano solitamente le band. Certo il nome di Lodo ha aiutato a vendere lo spettacolo nei locali musicali. Ma non serviva per trovare il pubblico, quello ce l’avevamo già».
Giulia Alonzo
Prossime date:
30/11/2018 Teatro Sociale – Valenza
14/12/2018 Teatro Verdi – Padova (finale Premio Rete Critica)
dal 14/02/2019 al 17/02/2019 Teatro India – Roma

Prossima puntata di Iperteatro 2018: Davide Lorenzo P

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