07 settembre 2018

MODA

 
Una riflessione sui talenti dello stile “emigrati”, nei giorni della “ritrovata” intolleranza
di Chiara Antille

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Diana Vreeland, nella sua autobiografia, scrisse che il colore dei pull-over Balenciaga cambiava a seconda della città in cui venivano indossati. Nel paese natìo di Cristobal risplendevano di colori accesi. Probabilmente perché quei pull-over erano legati indissolubilmente alla loro terra. 
Lo stesso legame vale anche per molti di noi: una piccola parte del nostro cuore pulsa per il Paese in cui nasciamo. Abbandonare quel Paese significa fratturare una parte della nostra emotività. 
Yohji Yamamoto, ad esempio, nasce in una Tokyo devastata dai bombardamenti della seconda guerra mondiale. Dopo aver completato i suoi studi universitari in una prestigiosa università giapponese, la sua fortuna sarà Parigi che lo accoglierà e lo adotterà. Egli stesso afferma di sentirsi più europeo che giapponese. 
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Yohji Yamamoto
Così come la madre di Pat McGrath che si trasferisce in Inghilterra dalla Giamaica, con delle prospettive di vita migliori. La figlia sarà definita dal dio Vogue «La più influente make-up artist del mondo».
Quel talento di Edward Enninful, fashion editor di British Vogue, ha dei ricordi sfocati del suo Paese, il Ghana, perché era molto piccolo quando lo lasciò per trasferirsi a Londra con la sua famiglia. 
Deve aver vissuto momenti difficili anche Helmut Newton, padre della sensualità nella fotografia di moda, quando è stato costretto a lasciare la Germania a causa delle leggi razziali naziste contro gli ebrei. 
E Paco Rabanne che vide la Francia come un’àncora di salvezza per sfuggire alla guerra civile spagnola. 
Citando, infine, Pierre Cardin italiano naturalizzato francese perché i suoi genitori caddero in miseria dopo la prima guerra mondiale. 
Per concludere: ci assumiamo la responsabilità di bloccare “ognuno a casa loro” con i propri sogni? 
Chiara Antille

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