01 giugno 2012

Vita di curatore all’Avana

 
Tre settimane all'Avana rimangono scolpite negli occhi e nel cuore. Specie se ci si sta per fare un progetto artistico. Abbiamo chiesto a Raffaele Gavarro, che ha curato il Padiglione Italiano per l'undicesima Biennale dell'Avana, di raccontarci questa esperienza da dietro le quinte. I ricordi più forti, le difficoltà, le soddisfazioni. Ecco la sua testimonianza (prima parte)

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Le aspettative con cui sono arrivato all’Avana erano molte e di diverso tipo. Ma all’inizio sinceramente erano più le preoccupazioni. Siamo arrivati a Cuba con una mostra praticamente tutta da costruire in poco più di venti giorni. All’inizio avevo addirittura deciso che gli artisti avrebbero realizzato i lavori interamente a Cuba, durante una residenza che sarebbe dovuta durare un mese. Ma dal centro d’arte contemporanea Wilfredo Lam, quartier generale della Biennale, mi venne subito detto che in questo caso dovevo presentare un progetto con la descrizione dettagliata di quello che avrebbero fatto gli artisti. Allora ho capito che dovevo cominciare ad evitare gli ostacoli. Così ho modificato il progetto dicendo che gli artisti avrebbero spedito un’opera della quale ci sarebbe stato un ampliamento, e che quindi la residenza sarebbe durata solo tre settimane. A quel punto tutti si sono tranquillizzati. Tranne io. Nel senso che sapevo che le idee che man mano stavano elaborando Stampone, Orlando, Favelli e Mottola, ci avrebbero procurato qualche difficoltà. Nel frattempo la Marinella Senatore mi aveva comunicato la sua impossibilità a venire a Cuba per tre settimane e la notizia mi creava qualche problema. Ho pensato più volte e a lungo di ritirare l’invito, ma sinceramente il suo lavoro, e in particolare Nui simu era perfetto per il tema della mostra. Così ho deciso, assumendomene la responsabilità, che una cosa del tutto indipendente dalla sua e dalla mia volontà, non poteva cambiare la scelta di un artista e di un lavoro che parlava esattamente delle cose di cui volevo parlare con “L’Etica prima della forma”. Oggi sono convinto di aver fatto la scelta giusta. Anche gli altri artisti ne sono convinti.

Detto questo, immaginavo che avrei vissuto un’esperienza umana piuttosto forte. E quest’aspettativa non è stata smentita. Così come non lo è stata quella per cui avrei imparato parecchio anche dal punto di vista del lavoro curatoriale. Oggi aggiungo che anche per la scrittura ho fatto cose diverse e ho imparato qualcosa in più. Il diario che ho tenuto su Facebook è stato un modo diverso di scrivere critica d’arte, negli ultimi anni ho cercato di spostare sempre più la scrittura verso una sintesi tra saggistica e narrazione. Questa idea del diario mi ha dato ulteriori possibilità in tal senso.

Ma ho capito anche cose più importanti sia di me che degli artisti, con cui ho condiviso tutto il condivisibile. Ho avuto la conferma che l’arte è una cosa più importante di quello che bevi e della gente che saluti ad un opening. È una cosa che tutti gli artisti, i curatori e i critici dovrebbero desiderare e cercare di realizzare.

Credo di poter parlare a nome di tutti, dicendo che è stata la cosa migliore che poteva accaderci, anche se dovevamo tenere conto della natura politica del luogo in cui eravamo. Quindi, rispettare delle regole che di solito non abbiamo. Non era tanto chiedere il permesso per fare una cosa, che so le interviste agli studenti nelle scuole (Valerio Rocco Orlando) o attaccare dei manifesti per la città (Giuseppe Stampone). Anche in Italia per fare cose del genere devi chiedere delle autorizzazioni. Il problema era che avvertivi la possibilità concreta che era il senso del tuo lavoro a poter rappresentare il problema. È un meccanismo che chiaramente può condizionare molto e che subentra senza che te ne accorgi. Ma eravamo tutti vigili, e tutti molto solidali nel confronto e nella verifica di quello che stavamo facendo. Gli artisti sono stati straordinari. Non avevano particolari rapporti tra di loro prima della partenza, ma già dal primo giorno si era formata una situazione di scambio e di collaborazione autentica e senza riserve, che non era affatto scontata. Man mano che con il passare dei giorni lo stress e la stanchezza aumentavano, ci rendevamo conto che solo continuando a mantenere questo tipo di relazione tra di noi saremmo riusciti a realizzare la mostra che avevamo in testa.

Abbiamo parlato molto del tema della mostra, quindi di etica, estetica, forma. Di come l’arte sia cambiata nel decennio zero. Personalmente ho fatto anche delle conversazioni sull’argomento con ciascuno degli artisti. Entreranno nel libro che ho deciso di pubblicare con i testi del diario, altri testi teorici e le centinaia di immagini che abbiamo realizzato.

Gli ultimi giorni, poco prima dell’inaugurazione, eravamo molto provati. Sul diario racconto molte delle cose che ci sono accadute. La situazione ambientale non era semplice. Abbiamo preso delle stanze in tre “case particular” (le case affittate dai privati per alzare un po’ di soldi), cercandole vicino al luogo dove dovevamo esporre. La zona si chiama Centro Habana, precisamente in via Concordia. Lo spazio dove abbiamo esposto è in Avenida d’Italia – Galiano angolo Concordia, appunto. La mattina per andare a lavorare nello spazio facevamo questo tratto di circa settecento, ottocento metri di strada, tra bambini a piedi nudi che giocavano in mezzo a cani scheletrici, topi schiacciati, escrementi di cane e frutta marcia ovunque. Puoi solo immaginare gli odori. Poi in Galiano lo smog delle macchine con il caldo ci dava il colpo di grazia. Alle 12 eravamo sfiniti. Ma nonostante ciò era visibile in tutti noi una certa felicità. Ci piaceva quello che stavamo facendo e quindi tutto diventava superabile. La mattina facevamo queste mega colazioni a base di frutta, il famoso pane all’uovo e una marmellata davvero buonissima. Ci sembrava una specie di festa. Ad un certo punto della giornata, in genere nel pomeriggio andavamo a lavorare all’Hotel Parque Central. Il paradiso dei turisti dei due giorni a L’Habana, tutta aria condizionata, sigaroni e mohito finti. Per noi era la bombola d’ossigeno fisica e virtuale. Finalmente riuscivamo a respirare con tranquillità e ad entrare in internet. Le email, i giornali. Io scrivevo i post per FB e con Valerio facevamo la selezione delle immagini. Questa di internet è stato lo stress inatteso peggiore. Ne parlo anche nel diario. Il low tech può distruggerti. Comunque la curiosità di leggere i commenti su FB era fortissima e ci emozionava scoprire chi ci seguiva, cosa dicevano. Ad un certo punto mi è sembrato necessario dire con chiarezza che il diario era diventato un modo essenziale per condividere una storia che ci stava davvero prendendo.

Il momento più bello è stato quando il direttore della biennale, Jorge Fernàndez, in conferenza stampa ha parlato della nostra mostra e del nostro Paese come di una delle cose più importanti della biennale. Il direttore del Lam e della biennale, si è rivelato una tra le persone più significative tra quelle che ho conosciuto nel variegato mondo dell’arte. Una persona attenta a tutto e, come si dice, sempre sul pezzo con una sicurezza e tranquillità notevoli. Non parla praticamente una parola d’inglese e non se ne cura granché. Per lui contano i contenuti e ha come un sesto senso per comprenderli al di là della lingua che parli. Un personaggio davvero notevole.

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