05 giugno 2012

Vita di curatore all’Avana

 
Tre settimane all'Avana rimangono scolpite negli occhi e nel cuore. Specie se ci si sta per fare un progetto artistico. Abbiamo chiesto a Raffaele Gavarro, che ha curato il Padiglione Italiano per l'undicesima Biennale dell'Avana, di raccontarci questa esperienza da dietro le quinte. I ricordi più forti, le difficoltà, le soddisfazioni. Ecco la sua testimonianza (seconda parte)

di

Della gente de L’Habana potrei raccontare moltissimi episodi. Ci capitavano cose di continuo. Ci sono dei personaggi incredibili. Dai montatori e dai custodi della Galeria Galiano che stavano seduti per ore immobili davanti al ventilatore, a Kiki, il grafico-pittore di manifesti ingaggiato da Flavio Favelli, praticamente cieco e a cui dovevi dettare lettera per lettera, ma che aveva la mano che andava da sola come indipendente dal corpo.

L’Habana è un delirio di musica e rumori. Sempre. Ventiquattro ore su ventiquattro. Piero Mottola, che per realizzare il suo lavoro è andato in giro per quindici giorni a registrare rumori, mi diceva che non trovava attimi di silenzio nelle registrazioni. I suoni erano senza soluzione di continuità. Bestiale. Vederli ballare e suonare nelle situazioni più improbabili era sempre incredibile. Ma è chiaro che scopri delle cose solo se vai oltre i luoghi comuni. Noi eravamo nella casa di un medico e di una giornalista della televisione. Abbiamo parlato con loro di molte cose, ma quando si andava su argomenti politici la discussione finiva per arenarsi rapidamente. Siamo andati alla manifestazione del Primero de Majo. È stato veramente surreale. Gli speakers che diffondevano voci terribilmente simili a quelle del nostro ventennio. Giovani scolari in divisa, inquadrati al fianco dei militari, realizzavano coreografie coordinate, vicino a ragazzi in piercing e con le cuffiette. Come ho detto nel diario, sembrava di essere finiti dentro una macchina del tempo impazzita. Nei giorni successivi abbiamo tentato di parlare della manifestazione con varie persone, di capire cosa pensava davvero la gente. Solo una custode della Galeria Galiano, con grande attenzione e a voce bassa, ci ha detto che era tutto falso. La stragrande maggioranza era costretta a partecipare. Credo sia vero. Ma direi che tutti indistintamente hanno un senso di gratitudine verso il passato, nel senso che la rivoluzione, Fidel, il Che, rappresentano ciò che concretamente ha permesso a Cuba di costruire una nazione in cui tutti possono studiare, lavorare ed essere curati. Naturalmente la realtà è molto più complessa e adesso cominciano a capirlo in molti, ma è senz’altro vero che ad esempio il livello culturale medio è molto alto. Tutti i custodi della Galeria Galiano avevano con sé un romanzo, che leggevano stando immobili davanti al ventilatore. Ma è altrettanto vero che i salari sono bassissimi, mediamente intorno ai 10 euro al mese, e che abbiamo visto scene di povertà quasi da terzo mondo.

Sono stato felice di tornare a Roma e in Italia. Parecchio. Anche se mi sono portato dietro molto. La bellezza di un luogo che in certi momenti toglie letteralmente il fiato, con tutte le contraddizioni di un posto intimamente libero e con un amore verso la vita che solo certi sud del mondo sanno darti e farti capire. Torno anche con la consapevolezza di aver fatto la mostra che volevo, di aver dimostrato che fare il curatore non è solo un lavoro da pierre e da tour operator. In questo senso, e per inciso, anche da Cuba e non solo dagli altri paesi europei abbiamo da imparare. Qui diventare curatore è una cosa seria. Non ti alzi al mattino e dici sono un curatore e magari, se hai le relazioni giuste, trovi pure la cupoletta del museo di turno che conferma che è vero, sei un curatore e quindi prego, la porta è aperta e quella è la scrivania. Nel centro Wifredo Lam, quartier generale della Biennale, ad esempio, cominci ad assolvere ai più banali compiti organizzativi o, come dico io, da tour operator, e solo se hai le capacità diventi terzo curatore, poi secondo curatore e alla fine primo curatore. E sono le capacità intellettuali, quelle che servono per dare contenuto e forma alle mostre, ad essere il valore determinante per la crescita professionale. C’erano ragazzi al Lam di fronte ai quali più di qualcuno dei nostri cosiddetti curatori con un po’ di amor proprio tornerebbe a studiare, o meglio ancora deciderebbe di cambiare lavoro. È triste vedere come in Italia certi valori legati all’impegno e al merito, siano ormai del tutto esclusi dalle dinamiche praticamente di tutti i settori. È triste, ma soprattutto è la cosa che sta davvero portando il nostro paese sull’orlo del baratro.

Tutti mi chiedono se voglio tornare a Cuba. Certo, spero di tornare presto, intanto per fare la vacanza che non sono riuscito nemmeno ad immaginare. Poi, come sempre, qualche altra idea nell’aria c’è. E magari anche stavolta si riesce a realizzare. Hasta la victoria siempre!

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