02 maggio 2013

Autocommiserazione, cultura ed economia in Italia

 
Autocommiserazione, cultura ed economia in Italia
di Raffaele Gavarro
Ma davvero il nostro è un problema di autocommiserazione?

di

“La nostra tendenza all’autocommiserazione è pari solo all’ammirazione che l’Italia suscita all’estero.”
Queste sono state le parole del neo premier Enrico Letta, ad apertura del breve passaggio  dedicato alla cultura nel suo discorso a Montecitorio. 
Ma davvero la cultura italiana, i suoi problemi, sono risolvibili parlando della bellezza delle campagne, delle montagne, delle spiagge, della bontà del cibo e della qualità della nostra moda? Il brand del Made in Italy è davvero la panacea dei mali della scuola, delle università, delle accademie, del cinema, della letteratura, della musica, del teatro, delle arti visive? Stupidaggini da doppio aperitivo. Nel paese che destina solo lo 1,1 % del proprio Pil a tutta la produzione culturale, ivi comprese le risorse destinate alla conservazione, un discorso del genere e soprattutto il consenso successivo, per la verità non così esteso, lascia sbigottiti. Una retorica davvero insopportabile, com’è quella del privato che sostiene la cultura. Ma in che senso? Sul serio si pensa che alle aziende italiane vada il compito di pagare corsi di laurea, musei, teatri, produzioni cinematografiche, editori di poesia? E per quale ragione? In nome del Made in Italy? Per la possibilità di defiscalizzare? Per un miglioramento della propria immagine? Dove? In Italia o fuori dai nostri confini? 
Diego Della Valle ed il Colosseo
Parliamo del cibo, probabilmente in questo momento il settore economico, micro e medio aziendale, di maggiore successo. Il caso di Oscar Farinetti e della sua Eataly ne è un esempio perfetto. Oggi è presente con diversi punti vendita in Italia, mi sembra nove; mentre all’estero è a Tokyo e a New York. Si parla di prossime aperture a Chicago, Los Angeles, Toronto e Londra. Un’azienda notevole, ben gestita, che lavora sulle eccellenze dei nostri prodotti e delle nostre tradizioni culinarie, che sono anche e non secondariamente culturali. 
Allora, che gli vogliamo chiedere al signor Farinetti? Come Diego Della Valle paga il restauro del Colosseo, a lui potremmo ad esempio chiedere di pagare la prossima stagione teatrale di Roma, o quella lirica di Milano; oppure potremmo chiedergli di trasferire la propria abilità manageriale nel nostro ambito, magari andando a fare il presidente del MAXXI, o diventando il paladino dell’arte italiana, finanziando e presiedendo l’ente Quadriennale di Roma. 
Insomma le idee non ci mancano e nemmeno i bisogni, se è per questo. 
Ma la domanda che a questo punto faccio è: tutto questo, anche moltiplicato per dieci o per cento, ammesso ci siano oggi tante aziende così in salute, dovrebbe permettere, garantire, o persino determinare la nostra politica culturale? Davvero pensiamo che sia solo un problema di risorse? Forse, prima e meglio, tutti oggi dovremmo innanzitutto ragionare sulla mancanza di visione collettiva e unitaria, ma anche identitaria, del sistema culturale italiano. 
Chiantishire
Una crisi senza dubbio determinata dall’insipienza politica ma che è risalita fino alle sorgenti avvelenandole. 
Nessuna autocommiserazione: piuttosto parlerei di realismo. 
Quello che mi pare manchi ad esempio a chi parla di grandi opere, di infrastrutture sovradimensionate e poi si preoccupa della perduta bellezza del paesaggio italiano. 
Volete vedere la bellezza del nostro paesaggio? Andate nei territori della Toscana o della Puglia, che inglesi o tedeschi hanno comprato per intero sottraendoli alla nostra capacità autodistruttiva. È vero gli stranieri ci amano, ma il problema è che noi non ci amiamo più. 
La maggior parte delle persone che si occupano oggi a vario titolo di cultura, farebbero carte false per trovarsi d’incanto in un altro Paese. 
Perché tutto questo cambi l’unica cosa da fare non è chiamare Farinetti, ma è piuttosto quella di lavorare seriamente su una sistematizzazione e modernizzazione del nostro sistema scolastico, universitario e culturale, prendendo a modello molto di quello che è già pratica in Europa. 
Fatto questo, avviato questo, allora Farinetti sarà davvero un aiuto prezioso per tutti noi.

4 Commenti

  1. L’investimento privato in cultura è uno degli strumenti a nostra disposizione per sostenere il “bene cultura”, in nessun dibattito nazionale (serio) si è mai parlato di “sostituzione” dell’investimento pubblico. Alla pari della sanità, infatti, la cultura è un servizio che ogni cittadino paga con le proprie tasse. Il suo articolo, purtroppo approsimativo, confonde le idee e crea un sottopensiero debole, frutto della disinformazione. Spero che Exibart inviti Michele Trimarchi o Stefano Monti (Monti & Taft) a scrivere un commento adeguato al tema degli investimenti privati in cultura.
    Elena
    Udine

  2. Gentile Elena, dispiace doverle ribadire che è l’evidenza dei fatti a darmi ragione. La dismissione in atto in termini d’invedtimento da parte del pubblico è sotto i nostri occhi. Da parte mia nessuna intenzione di confondere, semmai quella di segnalare.

  3. Vorrei capire quanto questo investimento privato è presente, affidabile … (e ne vorrei capire i perchè!?) Non è forse frutto di particolarismi, privati e/o istituzionali, che sono l’altra faccia di quella medaglia che ha svuotato il senso e i fondi pubblici alla cultura.
    Non ci vuole molto per capire, per sapere …
    Ognuno pensa ad un proprio “orticello”, alla soddisfazione del proprio ego …
    Basterebbe copiare esempi europei (a titolo di esempio la Francia: vedi Lang e la declinazione dei suoi interventi).
    Certo Farinetti! Ma chi lo ascolta?! Dico della politica, delle istituzioni.
    Rimettere in movimento l’università, la scuola, è indispensabile! Ma se anche lì non c’è una capacità di diventare “cuore” di una logica strutturata di politiche culturali, di sintesi e discussione ma, soprattutto, di un progetto, di che cosa stiamo a parlare?
    E peraltro fatica anche il “made in Italy”!
    Lo stato delle cose lo ha ben rappresentato Report, la scorsa domenica. Luoghi pubblici su cui i privati (gli amici degli amici) campano; luoghi pubblici che cadono a pezzi, piuttosto di essere destinati ad usi intelligenti; e via di questo passo …
    E’ sufficiente guardare la comunicazione attraverso il Web dei musei d’Europa e del mondo …
    E’ sufficiente guardare come si assegnano le gare d’appalto dei restauri dei nostri monumenti (al minimo ribasso!) e vedere i costi di un operaio o di un restuaratore che considera il MIBAC …
    Appunto, e che dire del MIBAC, dei suoi dirigenti … ?
    Si veda il cinema, la musica, lo spettacolo dal vivo, il balletto, etc.
    Insomma, o tutto questo diventa un terreno comune di intesa e dibattito o, in alternativa, non resta che andare “fuori” e/o “darsi all’agricoltura”.
    Bisogna che qualcuno abbia la forza e, forse, il “coraggio” di aprire concretamente un “ragionamento” generale su questi temi

  4. “Non abbiamo bisogno di chissà quali grandi cose o chissà quali grandi uomini. Abbiamo solo bisogno di più gente onesta.”
    Facciamo nostro questo enunciato di Benedetto Croce che mai come oggi ci potrebbe rappresentare. L’arte in questo momento, anche se considerata “secondaria” rispetto alle urgenze e alle priorità attuali, potrebbe essere un piccolo tassello in grado di dare risposte e soluzioni “pratiche” in un mare di parole al vento e volgarità. Petizione artisti al Giverno Letta:
    http://www.change.org/it/petizioni/programma-lavoro-onorevole-letta-l-italia-l-arte-e-il-sistema-fantasma
    Invito a parlarne.

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