01 ottobre 2015

CURATORIAL PRACTISES

 
La Post Autonomy di David Goldenberg
di Camilla Boemio

di

David Goldenberg è un artista concettuale Inglese. Ha partecipato a numerose mostre internazionali, tra le quali: Jump Into Cold Water (Shedhalle, Zurigo, 2006), Century City (Tate Modern, 2001), Out of Space (Kolnischerkustverein, Germania, 2000): A queste vanno aggiunte: la Biennale di Berlino (2012), la 2° Biennale della Mongolia (2010), la 10° Biennale di Istanbul (2007), e la 6°Biennale della Sharjah, negli Emirati Arabi (2003). Ed è anche un artista che si interessa di curatela.
Come sono cambiate le pratiche curatoriali? 
«Secondo la teoria dei sistemi del sociologo tedesco Niklas Luhmann il ruolo di curatore non potrebbe esistere, ma indubbiamente ha ottenuto dei risultati. Si tratta di una questione di analisi complessa; sono comunque convinto che i formati esistenti per presentare l’arte siano ormai obsoleti e stereotipati. Sembra adesso che curare implichi semplicemente imporre varie componenti materiali che compongono una mostra secondo lo schema del Modernismo e l’idea della produzione artistica come differenza. Ci sono una serie di pratiche curatoriali che sto seguendo che influenzano profondamente il mio pensiero e la pratica, alimentando la strutturazione e la progettazione del lavoro. Sono d’accordo con Roger M. Buergel e con ciò che ha cercato di fare a Documenta 12: qualsiasi contenuto che viene iniettato in un progetto rischia di non avere senso e crea un corto circuito. Questa è la mia comprensione del perché nei suoi primi progetti ha sviluppato mostre politiche locali che ha drasticamente cambiato quando ha curato un progetto globale come Documenta. Ci sono una serie di progetti che guardano fondamentalmente ai rituali, all’etichettatura dei sistemi artificiali e alle categorie o al collegamento storico delle opere, al completo edificio strutturale che noi intendiamo per una mostra o, come direbbe Sturtevants, alla struttura profonda dell’arte». 
La celebre frase di Michel Foucault: «un giorno, forse, il secolo sarà deleuziano» è ancora di grande attualità. Quanto il pensiero di Deleuze influenza ancora?
«Il filo conduttore è l’idea di Deleuze della ripetizione come una nuova forma di pensiero, un esempio chiave è Sturtevants “La verità brutale”, che è difficile da superare, ma sono altrettanto influenzato dalla “Once is Nothing Individual Systems”di Charles Esche e Maria Hlavajova, e dall’”Installazione senza fine: una storia di fantasmi per adulti” di uno spazio pubblico con un tetto, con il suo rigenerante interesse per le opere della memoria di Warburg, una pratica che cerca di guarire dalla malattia della cultura e dare un nuovo schema di pensiero. In altre parole, vi è uno specifico ente storico ben definito e determinato chiamato Museo nel quale si svolge la mostra, ma al momento questa entità è andata in blocco verso il basso. La possibilità che le istituzioni d’arte siano i bastioni superstiti della democrazia, la trovo molto preoccupante in quanto elimina drasticamente la possibilità di un ulteriore cambiamento sociale». 
Nel momento attuale possiamo rintracciare dei recenti progetti incisivi? 
«Ho iniziato a guardare il progetto di Tania Bruguera “Art utility” che abbatte le gerarchie, non c’è un artista e un curatore né il pubblico, un dilemma esaminato nelle pratiche partecipative, e uno spazio per recuperare gli strumenti politici sociali di protesta e di resistenza, impegnandosi in uno spazio sociale. Non sono convinto, che funzioni, ma al tempo stesso è oggi uno dei progetti veramente meritevoli di attenzione. Il motivo per cui è importante è che riesce a suscitare domande come: “Qual è il ruolo dell’arte” e “che effetto ha?” Queste ultime conducono verso un processo teso nel reinventare una nuova arte che sia in grado di affrontare l’attuale stato di emergenza».
Che cosa hanno fatto le istituzioni per soddisfare le richieste di un pubblico sempre più esigente? Quali sono le metodologie preferite e i modelli utilizzati da queste ultime negli ultimi anni? Ci potrebbe fornire qualche esempio in Inghilterra o nel mondo.
«Dopo il 2007 si è rotto, in Inghilterra, l’equilibrio che coinvolgeva le istituzioni agli artisti; riuscendo a proporre vera sperimentazione e un dibattito serrato. I musei di Londra hanno adottato mere strategie di marketing per attirare un vasto pubblico. È indubbiamente un cambiamento di rotta riscontrato in altre città e nazioni al di fuori del Regno Unito».
Ci può introdurre il suo Manifesto of Post Autonomy? 
«Il mio pensiero e la mia pratica dovrebbero essere viste come una critica fondamentale al Modernismo, con questo intendo il ritorno ad una pratica di rigida autonomia dell’arte e del mondo con una narrativa incontrastata dell’arte occidentale e con l’allineamento alla globalizzazione e al colonialismo. Questo allineamento, a mio avviso, è indifendibile e l’arte potrà ricominciare solo quando lo avrà rotto».
La Biennale di Venezia ha sviluppato nuovi problemi e contrasti, in cui emergono diverse contraddizioni e ha introdotto nuovi scenari sviluppando una visione globale dell’arte, includendo nuovi continenti e nuovi artisti. Cosa ne pensa?
«La Biennale di Venezia ha incorporano più Paesi per fornire a prima vista una mostra veramente globale sulla falsariga delle ultime Documenta, rivelando molto chiaramente i problemi del modello esistente e la sua incapacità di andare oltre. Questo ‘cul de sac’ è chiaramente indicato nel progetto di Okwui Enwezor, che rafforza l’esistenza di un centro e di un bordo al potere culturale. È una conferma del potere, che rende evidente che nulla sia cambiato. Quel cortocircuito creato nell’arte e nel suo contenuto lo rendono quasi privo di significato. La Biennale di Venezia è costruita come il centro di un impero, che rende vano il significato dell’esistenza degli Stati Nazionali e degli artisti che prendono parte ai vari progetti, offrendo solo una massiccia replica dello stesso modello globale che si scorge tra il progetto centrale e le varie proposte dei padiglioni nazionali».

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