04 novembre 2017

CINEMA

 
Luci, ombre e architetture di Blade Runner. Un viaggio tra la Los Angeles dei due episodi
di Domenico Sgambati

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La Los Angeles del 2019 è un città granitica, auto-referenziale, scolpita nella mente di tutti. 
Quella pioggia ticchetta da 30 anni la nostre memoria, illuminata dagli schermi televisivi grandi quanto palazzi e dai neon attorcigliati agli ombrelli dei passanti. Come la città di concentramento di James Ballard, che si estende in ogni direzione e in ogni tempo né i suoi abitanti né la nostra immaginazione avrebbero potuto – e qualcuno voluto – abbandonarla. 
Ma il trio Villeneuve-Deakins-Scott ha deciso di lasciare questo mausoleo di pietra tenochca della sci-fi e di percorrere quel deserto ipotetico di segni, narrazioni, emozioni, generi, teorie e umori che Blade Runner ci ha lasciato. La metropoli di Villeneuve è descritta come assediata dagli elementi, dagli oceani, dalla terra arida, dal metallo radioattivo. La desertificazione urbana irrompe dunque nel discorso immaginativo, perché quello politico e morale non basta più. Un colpo deciso alla visione anni ‘80 di una Metropoli bastante a sé stessa, autocratica, auto-rigenerante, destinata a spianare montagne e a prosciugare oceani come una nuova Trantor asimoviana, mentre per il 2049 gli autori immaginano un nuovo territorio dalla morfologie e simbologie strettamente intrecciati.
Se il nucleo cromatico del primo film ruotava ossessivamente attorno al gioco dei chiaroscuri, con visioni architettoniche ispirate a un neo-barocco alla Frank R. Paul e al modernismo di Antonio D’Elia, e avvolte da smog, piogge e potenti illuminazione futuristiche, interni perennemente tagliati da fasci di luce al neon e da eleganti linee noir di fumo, in questo capitolo del 2049 gli autori miscelano diverse coloriture per ogni paesaggio, che inducono/connotano il percorso interiore del protagonista, l’agente K. Il grigio degli spazi intermedi, il blu e il fucsia nei contrasti della metropoli, il rosso ruggine delle acciaierie abbandonate, l’ocra gelido di Las Vegas, il giallo metafisico degli interni della Wallace Corporation. Evidenti i richiami ad altri lavori visionari in cui il campo lungo fungeva da cornice e da caratteristica narrativa: il deserto (Interceptor – Mad Max), la città-discarica (District 9), la città abbandonata (l’Esercito delle 12 scimmie), la landa nebbiosa (Stalker), la terra rossa (Total Recall, Sopravvissuto). 
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Blade Runner 2049
Nell’overture della pellicola l’impatto è estremamente potente: una sterminata distesa grigia di collettori solari, dalla forma regolare, oculari. È un luogo di passaggio, una zona cuscinetto tra la metropoli e gli spazi esterni che verranno. Come una pelle, uno strato superficiale della città, che la protegge e la nutre. A essa si aggiungeranno altre tonalità di grigio: immense dighe che imprigionano il tessuto urbano, un albero mummificato, del terriccio inerte e un manto di nebbia che avvolgerà l’agente K in un banco di dubbi e di memorie frammentate. Il viaggio dalla detection esterna a quella interiore è cominciato.
La Metropoli è sempre lì. Allucinante, rumorosa, notturna. I led hanno sostituito i neon e imponenti ologrammi integrano gli schermi giganti che già nel 2019 segnavano l’incombente e massiva smaterializzazione di ogni elemento fisico, non conta se grattacielo o ombrello. La sagoma nera imponente del trench dell’agente K copre al suo passaggio i flash di luce, le tinte sfavillanti delle arterie multicolor invase di gente brulicante e spruzzate dall’eterna pioggia microclimatica. Qualcosa di familiare per tutti noi e per lo stesso Villeneuve, sicuramente emozionato nel (ri)girare certe scene.
Se il futuro del primo Blade Runner si giocava su uno stile retrò/noir anni ’40 proiettato in un futuro prossimo, il rosso ruggine delle acciaierie abbandonate e la polvere “marziana” di Las Vegas spingono a un doppio lavoro di memoria immaginativa. I ricordi dell’androide K ritrovano un segno tangibile del suo passato sintetico proprio lì, tra gli ammassi di una vecchia fornace, antico tempio dell’età industriale. Le risposte alle sue domande (incontrando il vecchio Ford-Deckard) le ritrova nella vecchia Las Vegas, avamposto gioiello di una colonizzazione fallita, in rovina. Una città automatica del futuro, che funziona anche se abbandonata dagli umani, che ancora ravviva le proprie simbologie (Elvis, Sinatra, Marylin). Anzi il deserto indifferente non fa altro che rafforzarne il potere espressivo e la forza estetica. 
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Blade Runner 2049
Una miscela rossa di memoria antropica e di futuro remoto andato perduto. Gli uomini sono scomparsi o sono andati via ma il lavoro non è finito. Sono le macchine che devono continuarlo ed è all’agente K che tocca intraprendere il viaggio interiore. È tra questi edifici morti, in questo passaggio allucinatorio e di sospensione ontologica, che l’agente K compie la sua trasformazione da uomo sintetico a soggetto reale, pensante, vivo. L’ eden tecnologico dell’Extra Mondo è lontano ed è l’androide KD6-3.7 a porsi domande non solo sulla sua breve esistenza – che è da tutelare anche a dispetto della sua identità, «se sono io quel bambino mi daranno la caccia» – ma sul senso profondo e sul valore ultimo dell’esistenza umana. Domande che tutti si pongono, prima o poi. Qualcosa accaduto anche trent’anni prima, quando un androide, divenuto occhio, memoria, coscienza umana presso le porte di Tannhäuser, non comprende ma alla fine accetta che il suo creatore abbia deciso di disfarsi di lui. 
Il mondo di Blade Runner è costantemente cosparso di immagini, vecchie foto, visioni oniriche, proiezioni olografiche, gadegt che integrano la vista, bulbi oculari sintetici o naturali. Colui che muove le fila del gioco, Wallace-Jared Leto, è cieco. Fredde tonalità di giallo illuminano le sale del moderno ziqqurat Tyrrel-Wallace. Gli ambienti di ispirazione minimale, assenti e silenziosi, sono tagliati dalla luce e da pareti solide e spettrali. Nella sala centrale una piattaforma è circondata dall’acqua e gli increspamenti dei bagliori riflessi bruciano la pietra che assume sembianze lignee. L’oscurità qui non è altro che una variazione di luce. Nascosto nella pancia di questo moderno antro sibillino, il dio mortale Wallace non ha bisogno di finestre (come il vecchio Tyrrel del primo Blade Runner, che ne aveva una nel salone) perché egli è la luce, seppur fredda e pallida, per i suoi angeli-androidi. 
Blade Runner 2049 è un film perfetto tecnicamente, che sposta il visual border di una misura rispetto a tutti i lavori contemporanei. Altre pellicole o capitoli dello stesso franchise, con resa ed effetti più avanzati, dovranno inevitabilmente confrontarsi con questo lavoro. «This was not called execution. It was called retirement», la durezza letteraria ed emozionale del primo capitolo rimane merce rara, rarissima in questo ultimo film. Colpa della nostra cultura visuale “dronistica”, fredda, mentale, che ci spinge a osservare da 30 anni Blade Runner come un mosaico olografato in una dome di vetro, senza tentare di superarne i solchi ideologi, comunque profondi. 
Rimane comunque una vibrazione, una suggestione: la forte emozione dell’ologramma di compagnia Joi, che grazie ad un gadget acquistato dall’agente K implanta l’ upgrading più importante, la percezione aptica: la possibilità di ”sentire” con la sua pelle olografata. E sentire cosa? Il ticchettio della pioggia. Ancora lei…
Domenico Sgambati

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