15 gennaio 2009

DALL’OTTIMISMO GLOBALE AL PESSIMISMO COSMICO

 
di alfredo sigolo

Tanto tuonò che piovve. Per qualche mese è parso quasi che il settore dell’arte fosse magicamente risparmiato dalla cattiva congiuntura. Invece la crisi è arrivata, inesorabile...

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Forse sarebbe stato anche possibile passare indenni, se solo l’economia globale avesse sbrogliato la matassa in tempi ragionevoli. Ma, a quasi due anni dall’inizio della bufera, più che schiarite si annunciano nuove tempeste. E così è cominciata la resa dei conti.
Gli scricchiolii si erano sentiti a inizio stagione: le aste londinesi avevano registrato cattivi risultati sull’arte storica, le prime fiere, Parigi e Berlino, avevano confermato un certo affanno anche sul fronte del contemporaneo. Qualcuno deve aver pensato, come accade in questi casi, che la scossa sarebbe venuta dal più sicuro porto di Frieze, che invece si è allineata alla tendenza. A questo punto la palla è passata nelle mani tremebonde degli States, scossi violentemente dalla recessione. E le aste newyorchesi hanno scoperchiato il vaso di Pandora: a metà novembre, le tre case d’asta principali in cui erano programmate le tornate di Post-War e Contemporary, Phillips, Christie’s e Sotheby’s, si sono spartite le briciole. L’invenduto complessivo ha superato il 40%, il fatturato non ha raggiunto neppure il 50% della più bassa delle stime pre-sale. E se il contemporaneo aveva toccato un incremento del 108% dal 2003, oggi fa i conti con una contrazione dei prezzi pari al 36% nel giro di appena un anno (dati Artprice.com).
Sulla carta, la peggio l’ha avuta Phillips, la casa d’aste più orientata al contemporaneo. Ma è da considerare che le due sorelle maggiori si sono coperte le spalle giocando soprattutto su opere consolidate. Più Post-War che Contemporary, insomma, con l’aggiunta di una buona dose di lotti coperti da garanzie sulla stima più bassa che, se da un lato ha messo il freno alle tendenze ribassiste, dall’altro si traduce in una perdita per il banditore (-28,2 milioni per la sola Sotheby’s). Nonostante ciò, il fatturato complessivo ha registrato 204 milioni di dollari contro i 429 delle più pessimistiche previsioni.
Il marchio Sotheby's
Da Christie’s si registra il commento di Robert Manley, che tenta una giustificazione sostenendo che le stime applicate sono quelle di giugno e che oggi il mondo è molto cambiato. Magra consolazione se non, piuttosto, una dichiarazione che il tempo delle vacche grasse è definitivamente finito.
Il clima nel quale si sono svolte le battute, d’altro canto, non poteva essere peggiore. A Los Angeles all’asta si va più per le case che per i quadri, a New York girano voci che almeno una cinquantina di gallerie private siano sull’orlo della chiusura.
Ancora a inizio novembre ci si entusiasmava per la straordinaria tenuta del mercato dell’arte. Qualche incrinatura c’era, ma guardandosi intorno si aveva la sensazione che i problemi veri stessero altrove. Sono bastate poche settimane, è bastato il banco di prova statunitense, per passare dall’ottimismo globale al pessimismo cosmico.
Ma alla fine dei conti siamo proprio certi che questa crisi sia negativa per l’arte? Il boom del contemporaneo ha fatto dell’arte un fenomeno di massa, ma l’eccessivo entusiasmo aveva favorito derive pericolose. Scelte, politiche culturali e ricerca sembravano ormai condizionate quasi esclusivamente dall’andamento del mercato. Le speculazioni erano all’ordine del giorno, l’affannosa rincorsa ad arrivar primi sui potenziali top player era un imperativo categorico. Molte gallerie campavano ormai solo di fiere, lottizzate dai colleghi più influenti, se non addirittura dalle case d’asta e dalle loro propaggini sul mercato primario. Tutti dovevano garantirsi almeno un esponente dei nuovi mercati dell’Est, della Cina o dell’India.
Un momento dell’asta di Hayez tenutasi lo scorso novembre
L’omogeneizzazione cominciava a farsi realmente preponderante. Un appiattimento indotto da un costume che premiava più la tempestività, la strategia, l’allineamento al gusto dominante che la ricerca, l’approfondimento, l’identità. Per non dire dei prezzi, arrivati a livelli impraticabili per gli emergenti, tanto da stoppare la naturale emersione di un collezionismo medio allargato. Quanto alle opere degli artisti più in voga, trasformati in vere imprese multinazionali, le loro quotazioni ormai annichilivano i grandi maestri del passato ed erano riservati a pochi parvenue ex sovietici o star manager con pochi scrupoli, una lobby che condizionava pesantemente le politiche di musei e grandi eventi pubblici. L’idea stessa di un mecenatismo attento e appassionato era fortemente compromesso dalle mere ragioni d’investimento. E poi la distorsione delle grandi mostre, il revisionismo storico che affossava interi capitoli della storia dell’arte penalizzando le economie più deboli, il valore culturale declinato ormai in valore di scambio e di consumo.
Tutto questo era, ed è ancora, il sistema dell’arte. Forse una scossa per ristabilire un po’ di equilibrio non sarà poi così dannosa.

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alfredo sigolo


*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 54. Te l’eri perso? Abbonati!

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2 Commenti

  1. La crisi stà dimostrando che il mercato azionario e quello dell’arte sono omologhi: entrambi attirano capitali del ceto medio per poi bruciarli e arricchire i soliti burattinai.

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