01 ottobre 2009

CI VUOLE UN FISICO MENTALE

 
di gabriele tinti

Un excursus sul rapporto fra arte e sport. Da Douglas Gordon per arrivare, a ritroso, al nipote di Oscar Wilde, antesignano della performance. Che sfidò addirittura il campione del mondo dei pesi massimi...

di

Tutto muscoli. Tanto, troppo cervello.

Sembra un paradosso, un’affermazione provocatoria se
riferita a un’inchiesta sull’arte. Invece non lo è, perché lo sport è diventato
un, se non il
fondamento della vita odierna. E l’arte mostra di non poterne fare a meno e di
tenerne conto prendendolo a oggetto di riflessione: perché lo sport è un
orizzonte vasto, influente, diffuso. È oggi l’immaginario che determina stili
di vita universalmente condivisi, l’attivante effettivo d’istinti e comportamenti
rivoluzionari. È sempre più lo spazio di produzione del mito, al pari degli
altri linguaggi culturali.

Perché lo sport è cultura e in molti – artisti ma anche
molti scrittori – si sono preoccupati di con-fondere piani che, secondo l’impressione
e il giudizio nati negli ambienti colti, sono stati considerati opposti e non
contaminabili: sport e cultura appunto, le logiche del corporale e quelle dello
spirituale. Da questa confusione è nata – con grande consapevolezza e per differenti
ragioni – un’arte “tutta muscoli”.

Si pensi al lavoro forse più noto di Douglas Gordon (Zidane, un ritratto del XXI
secolo
, 2006),
così come a molti black painting di FrankoB, dove la rappresentazione di un incontro di lotta, di
pugilato, si sublima in un’estetica del carnale. Oppure agli inizi di Maurizio
Cattelan
, che con
AC forniture sud
(1991) creava un’immaginaria ditta, Rauss, facendola diventare sponsor reale di una squadra
d’immigrati nordafricani regolarmente iscritta – e simbolicamente perdente – al
campionato locale di terza divisione.

Ancora Patrick Tuttofuoco, che profondamente si riferisce allo
sport citandolo (in Olympic del 2005), praticandolo (attraverso l’enorme ruota
installata e utilizzata in Corso Vittorio Emanuele a Milano) ed evocandolo (Velodream del 2001, Bycircle del 2004, BMX-Y del 2004 e – più in genere –
all’interattività con la quale sono pensati tutti i suoi lavori).

A diversi livelli, i disegni sotto sforzo, frutto di
un’attività agonistica (Drawing Restraint 1, 1987), e a tutta l’opera, a
tutta la vita, di Matthew Barney; alla ridefinizione (Nike Ground 2003-04), traumatica per i viennesi,
della storica Karlsplatz a opera di Eva e Franco Mattes (alias 0100101110101101.org); all’ironia con la quale Roman
Signer
spesso si
appropria di alcuni strumenti sportivi per farne dei video e delle performance
paradossali; alla fotografia dai contenuti sociali di Wallinger come a quella, surreale, di Tatsumi
Orimoto
(Boxing
Partner
, 2003);
alle perfezioni formali raggiunte dalle riprese con camera fissa sugli stadi di
Grazia Toderi
(Il decollo,
1998; San Siro,
2000; Diamante,
2001 e molti altri) e allo stesso tempo alla critica politica di Kendell
Geers
(Masked
Ball
, 2002).

Questo addensarsi di energie attorno allo sport da un lato
spaventa e dall’altro attrae. Spaventa chi considera il corpo “tutto
muscoli niente cervello
” come una zavorra di cui liberarsi, come un “male” (Platone). Attrae chi
nietzscheanamente crede vi sia “più ragione nel corpo che nella
migliore sapienza
“;
chi crede che gli eroi del corporale, rappresentando una concretezza esperibile
del simbolico e del sovrastorico, siano più vicini alle cose; che le cose
accadono in loro, senza mediazioni.

Questo punto di vista si depositò e si diffuse – ispirato
com’era alla filosofia di Friedrich Nietzsche, Gottfried Benn, Maurice Merleau-Ponty
– fin dall’inizio del XX secolo e provocò progressivamente un’ondata
rivoluzionaria di artisti che cominciarono, per ragioni e finalità differenti,
a indagare i limiti del corpo e della mente. Ondata che raggiunse il culmine –
e forse le risultanze maggiormente significative – negli anni ‘60 e ‘70 con Joseph
Beuys
, Gino De
Dominicis
, Vettor
Pisani
, Gina
Pane
, Hermann
Nitsch
e molti
altri.

In particolare allo sport, alla prestazione sportiva, s’ispirò
un maestro della performance come Vito Acconci, che in Step Piece del 1970 saliva e scendeva da uno
sgabello nel suo appartamento ogni mattina a un ritmo di trenta passi finché lo
sforzo glielo permetteva. L’operazione veniva ripetuta quotidianamente e i
risultati del suo miglioramento pubblicati ogni mese.

Ma il vero pioniere – colui che stabilì questa connessione
per primo e in senso specificatamente moderno – fu un personaggio poco
conosciuto, nato a Losanna nel 1887 e nipote di un certo Oscar Wilde: Fabian
Avenarius Lloyd
.
Cambiato il proprio nome nel più assonante Arthur Cravan, nel 1912 fondò,
scrisse, pubblicò e distribuì da solo la rivista “Mantenant”, attraverso la
quale ridicolizzava molte opere d’arte esposte alla mostra degli Indipendenti,
oltre che molte delle idee degli intellettuali dell’epoca.

Alto quasi due metri, fisico eccezionale, il suo
capolavoro fu incontrare, in un match vero, valido per il campionato del mondo,
il campione di pugilato Jack Johnson. “Sento anche che l’arte, come il
misterioso stato di forma di un lottatore, ha la sua sede nel ventre piuttosto
che nel cervello, e questo perché mi esaspero quando sono davanti a una tela e
vedo, mentre penso all’uomo, drizzarsi soltanto una testa. Dove sono le gambe,
la milza e il fegato? La pittura è camminare, correre, bere, mangiare, dormire
e fare i bisogni”
,
andava dicendo in
quegli anni.

Realismo, carne, dolore dunque, amore, “il
combattimento come una delle belle arti
” (Walter Pater), appunto, al di là del bene e del male,
al di là d’ogni ipocrisia della parola e d’una forma. “Signor Gide”, cominciò una sua irriverente
lettera al famoso scrittore francese, mi sono permesso di venire a trovarvi ma credo
di dovervi dichiarare senza indugi, per esempio, che preferisco di gran lunga
la boxe alla letteratura
”.

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*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 59. Te l’eri
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