15 luglio 2012

Novanta giorni di assordante silenzio

 
Tanto è passato da quando l’Amaci ha chiesto un incontro con Mario Monti. Non è mai arrivata nessuna risposta. Neppure un cortese: “prego, ripassi più tardi”. Nel frattempo però i musei chiudono, come anche altre storiche istituzioni culturali. E un comma di un articolo della spending review rischia di peggiorare ulteriormente le cose. Che deve accadere perché la nostra cultura che il mondo ci invidia sia messa nell’agenda del Governo?

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Oggi sono tre mesi. Novanta giorni tondi da quando Amaci, l’associazione che riunisce 27 musei d’arte contemporanea italiani, ha chiesto di incontrare il primo ministro Mario Monti. E sono novanta giorni di assordante silenzio. Puntualmente registrato, con tanto di orologio, dal sito di Exibart. Certo, Monti, spintonato qua e là dalla sua “strana maggioranza” e con il tiro al bersaglio fatto da Moody’s mentre si accingeva a convincere eventuali investitori stranieri che l’Italia è solida, ha ben altre beghe cui pensare. Ma il premier ce la starà anche mettendo parecchio per salvare il salvabile, su una cosa però sbaglia di grosso. Davvero crede che, Moody’s a parte, ci siano nuovi presunti investitori pronti a venire in Italia? C’è pure il rischio che torni Berlusca. E non ha mai sospettato che uno dei pochi ragionevoli settori che potrebbe destare qualche interesse sia la cultura? Che significa paesaggio (quel che rimane), ambiente, un patrimonio storico che il mondo ci invidia e per il quale continuiamo a contare qualcosa in quello stesso mondo e che molto incide sulla qualità della vita – un vasto Made in Italy che comprende cibo, visionarietà, forse anche il calcio, che il mondo ci copia – e sullo sviluppo economico per cui Monti ha creato un apposito dicastero. Il Premier potrebbe cogliere una prospettiva di crescita, che tanto sembra stargli a cuore, ma qualitativamente diversa da quella che ci ha portato nella palude dove galleggiamo ora, cominciando ad ascoltare quelli che con la cultura del presente – perché non si tutela il passato se non ci si impegna nel presente – ci lavorano. Quindi, per esempio, Amaci. Che non sarà il massimo della museologia o dell’associazionismo, ma è pur sempre l’interlocutore istituzionale. Una realtà precisa.

Dai direttori dei musei italiani Monti potrebbe essere meglio informato non solo del fatto che, dopo che ha chiuso il benemerito Centro Sperimentale di Cinematografia, rischiano di chiudere anche i musei, e non solo quelli di arte contemporanea che probabilmente a lui e ai tecnici continuano a sembrare un lusso di cui si può fare a meno, ma che sono a rischio proprio tutti. Oltre quelli che, per instabilità politica, beghe locali e promesse mancate – vedi l’attesa fondazione MACRO rinviata in Consiglio Comunale – hanno già praticamente chiuso o navigano a vista. E potrebbe avere qualche ragguaglio in più circa le conseguenze che un’implosione del genere causerebbe sullo sviluppo economico, anche se dovrebbe già sapere che non c’è crescita senza istruzione e cultura.

E – repetita iuvant – l’Amaci potrebbe ricordargli che la situazione è particolarmente critica anche perché una famigerata norma, la legge 122, partorita dall’acume del “teorico dei tagli lineari”, l’ex ministro dell’economia Giulio Tremonti, impone ai Comuni un tetto del 20 per cento di spesa rispetto all’anno precedente (quindi un taglio dell’80 per cento progressivo) nell’investimento anche (non solo, lo sappiamo bene) nella cultura. Norma che chiaramente, attraverso acrobazie tipicamente italiane e italiote, è stata ed è dribblata, altrimenti avremmo chiuso già tutti. Dribblata ma, ipocritamente, non cancellata dal “governo dei tecnici”.

Basta la legge 122 per mettere in mutande i Comuni e con loro le varie istituzioni culturali: musei, gallerie civiche, teatri lirici, biblioteche, che, magari non per scelta, da quelli dipendono? No, si può fare di più. Ci ha pensato mister Mani di Forbice, l’aguzzo Enrico Bondi, che nella più generale spending review ha previsto il comma 6 dell’articolo 4 che impedisce allo Stato di sostenere le attività culturali delle fondazioni. La qual cosa significa ulteriore aggravio di problemi anche per il MAXXI, la Fondazione Musica per Roma e tutti quei vari musei che, pensando di avere vita più facile, sono diventati fondazioni.
«Se non fosse rivisto, questo comma distruggerebbe tutto quello che è stato costruito negli ultimi vent’anni», ha affermato Carlo Fuortes, presidente della Fondazione Musica di Roma e del teatro Petruzzelli di Bari, presentando martedì 10 luglio la ricerca “I luoghi del contemporaneo”, promossa dal Servizio Architettura e Arte Contemporanea del Ministero dei Beni Culturali, che peraltro registra un incremento quasi del 100 per cento di tali luoghi rispetto al primo volume redatto nove anni fa: poco più di 100 allora a fronte dei 203 censiti oggi. Una realtà in crescita, dunque, pur tra mille difficoltà e soprattutto nella disattenzione più totale.

Ma, ci sono dei “ma”. In un seminario a porte chiuse del MAXXI tenutosi giovedì 12 luglio al quale era invitata anche la sottoscritta, Paolo Carpentieri, Capo Ufficio Legislativo del Mibac, si è affrettato a precisare che il comma in questione va a colpire solo le fondazioni che vendono servizi, ammettendo però che «è scritto in maniera poco chiara».
Come stanno veramente le cose? Perché una norma del genere, di vitale importanza per la sopravvivenza di molte realtà culturali italiane, è scritta in modo ambiguo, consentendo una certa interpretazione da parte del Mibac, condivisa dal Commissario del MAXXI Antonia Pasqua Recchia, e un’interpretazione del tutto diversa di chi, come Carlo Fuortes, non è esattamente il primo che passa e apre bocca e gli dà fiato?
Questo è un primo punto che va chiarito subito.

Ma c’è ne è un altro non di minore importanza. Se lo Stato vuole arrivare a “dismettere” finanziariamente i musei, almeno quelli diventati fondazioni, partecipate però dallo Stato stesso come è il caso del Maxxi – in un recente incontro con cui il  ministro Ornaghi  ha convocato i “soci donatori” del museo di Zaha Hadid, il messaggio è stato molto chiaro: “pensateci voi al vostro museo” – dovrebbe preoccuparsi di mettere i privati nella condizione di donare o comunque sostenere i musei. Bene, dal seminario del 12 luglio, grazie alla pazienza certosina di un giurista come Massimo Sterpi e di un fiscalista come Alessandro Gallone che hanno spulciato norme e contronorme, commi e cavilli, è emerso che gli incentivi per sostenere in vario modo i musei, dalle sponsorizzazioni alle donazioni, ci sono, «anche troppi», secondo Sterpi. Però non si conoscono e sono fatti in modo tale da confondere e scoraggiare anche il più convinto donatore. Dunque, il primo compito del Ministero dei Beni Culturali, oltre a chiarire i veri destinatari del comma 6 dell’articolo 4 della spending review, è di rendere accessibili e trasparenti tali norme. E di farlo subito. Magari con una decisa spinta di Mario Monti, che non tradirebbe la sua fama di liberalizzatore e ammodernatore del sistema Italia.

Vede, caro Primo Ministro, quante cose potrebbe apprendere, facili per giunta e molto in linea con il suo programma, se si degnasse di ricevere l’Amaci? Non per ascoltare piagnistei e lamentazioni da anime belle, ma indicazioni concrete, pareri tecnici che potrebbero seriamente contribuire a un “governo del fare”, ben lontano da quello colpevolmente bugiardo che ha ingannato fino a pochi mesi fa metà degli italiani.
Ad oggi sono passati 90 giorni da quando le è stato chiesto un incontro, quanti ne dobbiamo aspettare prima che una voce autorevole della cultura italiana abbia l’onore di essere ascoltata da Lei?

2 Commenti

  1. Con tutta la comprensione per il lavoro di Mario Monti, sono ampiamente condivisibili le concrete istanze indicate da Adriana Polveroni comprese quelle della revisione della norna della 122, e le chiarificazioni-anche fiscali- sulle donazioni e sponsorizzazioni. Continuo ad avere fiducia nella considerazione della Cultura da parte dei responsabili istituzionali , come da parte dei cittadini.

  2. La cultura va rispettata a tutti i livelli , ma forse le valutazioni di Monti partono dal fatto che in un momento di crisi come questa ogni iniziativa deve auto-sostenersi. Mi pare che questa sia anche una prova di qualità: se sei bravo sicuramente avrai consenso quindi avrai la possibilità di sopravvivere. D’altra parte il cosiddetto sistema dell’arte (che ormai fa acqua da tutte le parti) si riduce alla cerchia di poche persone, sempre le stesse e più o meno con gli stessi artisti. E’ necessario fare emergere tutta la cultura, tutti gli artisti in Italia e ce ne sono tantissimi perché non farli diventare forza economica di esportazione? Timidamente vorrei dire perché in Italia non esiste nessuna leggina o legge per come si deve per gli artisti? In questo paese ogni artista si arrangia da sé e come può, spesso gli artisti sono ostacolati da direttori di musei, critici o addirittura di un vero e proprio caporalato che chiede ogni tipo di contropartita a volte anche vergognosa e scandalose. Queste son cose che tutti sanno.
    Bene allora chi può godere del privilegio di avere una sede come il MAGA si contenti di questo! Si pensi piuttosto a chi non ha niente come la maggior parte degli artisti che spesso non hanno lo studio per lavorare e devono sopportare angherie di tutti i tipi. Per concludere: la cultura, non sarebbe più proficuo andarla a cercare negli studi degli artisti? E di tutti gli artisti!!
    Matteo Lo Greco

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