17 settembre 2012

Toh, la pittura

 
Torna o non torna? Forse è già qui o non se ne è mai andata. E non è solo un fatto di mercato, la pittura è "un evergreen" prima di tutto perché si appende al muro. Ma il fatto è che, sempre più spesso, tra mostre e workshop, si ricomincia a parlare di pittura. Anche criticamente e anche tra giovani curatori. Anche se tanti artisti non sono mai stati esposti e su altri non si è riflettuto abbastanza. È il momento di cominciare

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Facciamo finta che l’idea di un nuovo ritorno della pittura non sia terribilmente obsoleta, incomprensibile (soprattutto fuori dall’Italia), fuorviante (cioè vera solo per chi non si è accorto che la pittura non è mai scomparsa). Che “morte e rinascita del medium” non sia una delle formule di cui anche la pittura si serve per confermare a se stessa le ragioni della propria inesauribile vitalità. Che alcune cose che stanno accadendo in questi mesi, in questi anni, facciano pensare che siamo proprio dentro uno di questi ritorni. Facciamo anche finta che, di tanto in tanto, sia un esercizio proficuo concentrarsi sulla specificità di un medium come la pittura.

Dunque, la pittura è tornata. E perché mai proprio adesso?

Uno: è per via della particolare contingenza storico economica che stiamo attraversando: nei momenti di crisi il mercato dell’arte vira verso qualcosa di più rassicurante, di meno effimero, come la pittura. Giusto, ma ci vorrebbe uno storico dell’economia per spiegare le ragioni di questo fenomeno ciclico. E perché mai per un collezionista dovrebbe essere più rassicurante comprare un dipinto piuttosto che una scultura o una fotografia?

Due: le ragioni di questo ritorno hanno a che fare con l’uscita dal postmoderno e con l’obsolescenza di certe pratiche, diciamo, concettuali. Anche questa spiegazione reggerebbe se non fosse che da decenni la pittura è fortemente implicata con queste pratiche (ripetiamo una volta di più, ad esempio, che Richter è concettuale quanto Kosuth), cioè che non fa storia a sé (tuttavia è vero che la pittura, per via dei suoi limiti e delle sue convenzioni, si rende più impermeabile a certe aberrazioni tardo concettuali).

Tre: la pittura è tornata, qui e ora, perché siamo semplicemente un po’ più lontani dagli anni Ottanta e dalla nefasta influenza della Transavanguardia. Era più difficile dipingere nei primi anni Novanta, è probabilmente più facile farlo ora. Non è qualcosa che ha a che fare con una facilità, o una benefica leggerezza, il modo in cui certi pittori delle ultime generazioni – Andrea Kvas, Sara Enrico, Riccardo Baruzzi, Alessandro Roma – incontrano involontariamente certe forme moderniste o indicano nuove possibilità di relazione tra i dipinti e lo spazio?

Ricapitoliamo: quali che siano le ragioni, la pittura è tornata. Almeno in Italia. Più che le cause è divertente individuarne gli effetti, elencando (in modo arbitrario) una serie di piccole e grandi cose che a me, come a molti, è capitato di vedere: la pittura analitica, un movimento molto eterogeneo e ingiustamente sottostimato, viene celebrata da qualche tempo con nuove pubblicazioni e mostre. Giorgio Griffa, ad esempio, figura tra gli artisti (e le riscoperte) di una galleria come Casey Kaplan, che ha già annunciato una personale dell’artista torinese nella prossima stagione.

A Milano, alla Fondazione Marconi, l’entusiasmo suscitato (soprattutto tra i giovani artisti) dalla mostra delle gouaches di Sonia Delaunay ribadisce l’importanza di quel lavoro degli anni Venti anche alla luce dei recenti sviluppi della pittura astratta. Sempre a proposito di riscoperte, c’è anche quella di Bice Lazzari, a cui il Macro ha dedicato, lo scorso anno, una meravigliosa mostra.

I quotidiani italiani danno spazio alla polemica sollevata da David Hockney contro Damien Hirst, una strenua – quanto discutibile – difesa della manualità in arte.

La casa editrice Johan & Levi colma una lacuna inspiegabile nell’editoria italiana, e pubblica (a distanza di vent’anni da quella di Allemandi) un’antologia (a cura di due trentenni, Giuseppe Di Salvatore e Luigi Fassi) degli scritti di Clement Greenberg, riferimento ancora imprescindibile per qualsiasi teoria critica sulla pittura contemporanea.

E ancora: a villa Gordo Painting Detour (a cura di Andrea Bruciati) ha assegnato a Luca Bertolo, Francesco De Grandi, Maria Morganti, Marco Neri, il ruolo di tutor in un programma di residenze con una decina di pittori, diciamo, under 35. Tra i pittori mid-career, per ragioni diverse, loro sono effettivamente dei punti di riferimento.

Alla Fondazione Nomas di Roma è appena terminato Painting Cycle (a cura di Cecilia Canziani e Ilaria Gianni), un ciclo di mostre che aveva, tra gli altri, l’obiettivo di ridefinire un vocabolario specifico per la pittura attraverso una serie di discussioni tra gli artisti invitati e alcuni critici.

Quella della specificità della pittura (posta come domanda, come problema da verificare) era l’idea portante di una serie di tavole rotonde che organizzai un paio di anni fa a Viafarini, insieme a Maria Morganti, Luca Bertolo e Antonio Grulli. Ricordo l’inaspettata partecipazione di pubblico durante quegli incontri. La stesso tipo di partecipazione che ho riscontrato a Nomas e qualche settimana fa alla galleria Monitor di Roma, durante una giornata di studi dedicata alla pittura in occasione della mostra di Peter Linde Busk.

Più in generale: si inizia a parlare di pittura anche dove non ti aspetti, e con chi non ti aspetti. Con un desiderio talvolta barbaro e impacciato, ma per questo interessante. Ecco la cosa nuova e diversa di questo ritorno: una generazione di galleristi, critici, curatori, diciamo una generazione di trentenni che si è sempre avvicinata con una certa circospezione alla pittura (o soggezione, quando non proprio ostilità e indifferenza), manifesta per la prima volta una curiosità, e l’intenzione di ricostruire un vocabolario per discuterne in termini critici.

Fantastico. Ci sono però alcune cose che secondo me dovrebbero accadere perché il ritorno sia davvero un ritorno, cioè che si accettino alcune differenze metodologiche a cui la pittura obbliga (piccole, tutto sommato).

La disponibilità alle lunghe fedeltà. A frequentare gli studi. A parlare di processi, che possono svilupparsi anche in tempi molto lunghi, e non di progetti. Dunque ad accogliere anche il disordine progettuale. A cercare la pittura non solo nelle venti gallerie internazionali più trendy, ma anche in quelle di seconda linea e di mercato, perché è lì che talvolta, per ripiego o per necessità, la pittura finisce (poi un piccolo suggerimento ai più giovani tra i direttori dei musei: non sarebbe il caso di considerare quale lacuna sia stata, negli anni novanta, non aver visto in Italia mostre di Peter Doig, John Currin, Elizabeth Peyton, Luc Tuymans, Tal R, e via dicendo?).

Soprattutto è urgente provare a colmare il vuoto critico più grande, quello della storia della pittura italiana dagli anni Novanta in qua (sono pochi i critici italiani che se ne sono davvero occupati, a me vengono in mente Gianni Romano e Alberto Mugnaini). Ricostruire quella storia. Suggerire nuove letture. Non attraverso grandi mostre collettive (quasi sempre inutili e fallimentari), ma indicando, cioè stabilendo rimandi e concatenazioni.

Qualche esempio: il rapporto tra figura e narrazione nel lavoro di Alessandro Pessoli, che negli ultimi tempi è entrato anche in un territorio interessante quanto pericoloso, quello del sacro. I quadri “a soggetto storico” di Marco Cingolani (Il ritrovamento del corpo di Aldo Moro; L’attentato al papa) e di Andrea Salvino, che, in modi diversi, hanno anticipato di qualche anno una tendenza attuale dell’arte italiana, l’insistenza sulla cronaca e la storia, con quella particolare predilezione per gli anni settanta. Il rapporto tra manualità e ritmo in alcune serie di Marco Neri (Quadro mondiale, Mirabilandia). O nei dipinti di Maria Morganti, una delle poche artiste che in anni recenti ha sviluppato, attraverso una pratica quotidiana e silenziosa, un lavoro integralmente astratto. Le evoluzioni e le variazioni della macchia (intesa come grado zero, potenzialità, negazione, o astrazione pura) nei dipinti di Luca Bertolo. La velocità in Pierluigi Pusole (quello degli esordi, di Raiquattro vision, che pare mettersi in competizione con Schifano, e dei grandi paesaggi successivi). I “ritratti di una scultura” di Lorenza Boisi.

Sono solo esempi, piuttosto sommari, ed è probabilmente difficile, per la generazione di critici e curatori formatasi negli anni Zero, la mia, trovare parole nuove per raccontare il lavoro dei pittori. Ma se ne abbiamo voglia, c’è davvero molto su cui ritornare.

*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 79. Te lo sei perso? Abbonati!

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