11 febbraio 2013

La possibilità della pittura/2

 
Esiste una specificità della pittura made in Italy? Per molto tempo è stata rintracciata nel suo essere "copia", dalle icone sacre ai propri cari. E la differenza con la semplice immagine riflessa era nel suo essere "emblematica", che trovava la totalità di senso nel perimetro del quadro. Situazione che allontana la pittura dal suo essere nel mondo. Ma per fortuna una nuova generazione di artisti la riporta nello spazio tempo della nostra epoca

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Una delle affermazioni che s’incontrano più spesso nella letteratura artistica italiana dedicata alla pittura, è quella per cui questo linguaggio fuori dal nostro Paese è considerato in modo molto diverso che da noi. Innanzitutto non manca mai nelle grandi mostre e anche nelle analisi teoriche le è riservato un posto non secondario. Di contro in Italia raramente si trova in esposizioni diciamo mainstream, e forse anche per questo la riflessione critica non ha mai brillato per acume. È raro però che qualcuno si prenda la briga di ragionare sulle motivazioni che sono all’origine di questa differenza. Tento di farlo cercando di non cadere in troppe banalità.

La prima ragione che mi viene in mente, e che riferisco in modo forse un po’ brutale, è che molta pittura qui da noi ha proliferato nel brodo di coltura di quella sottocultura dell’arte che la considera ancora l’Arte con la A maiuscola, e che individua in lei quelle qualità essenziali dell’Arte (sempre naturalmente con la A maiuscola) come la bellezza, la comprensibilità e non da ultimo quella manualità che la rende unica.

Vale la pena ricordare che proprio nel nostro Paese, nella prima metà degli anni Ottanta, sono nati e cresciuti fenomeni come la Pittura Colta e/o l’Anacronismo e/o l’Ipermanierismo, che hanno segnato una stagione tutta italiana della pittura, facendo riferimento ad un Postmoderno ridotto a idee e termini minimi. Una serie di affermazioni pittoriche e teoriche che, per inciso, hanno rappresentato il lato oscuro della Transavanguardia, il movimento che ha avuto la responsabilità del primo storico ritorno alla pittura come ritorno all’Arte, dove oltre che dalla maiuscola il concetto era accompagnato da un sospiro di sollievo.

Ma oltre ciò, e per dirla tutta, proprio la paradossale idea portata dall’Anacronismo ha rappresentato la concretizzazione di una condizione da sempre latente nella concezione popolare dell’arte nel nostro Paese. Se veramente si volesse ragionare sul carattere popular dell’arte italiana, al primo posto della riflessione si dovrebbe porre proprio il concetto e la pratica della “copia”. Quest’ultima è stato l’esercizio che ha segnato la formazione della cultura artistica popolare italiana, e in particolare ovviamente di quella pittorica, prima e dopo la modernità novecentesca, continuando a condizionare molta pittura italiana degli ultimi decenni.

La “copia” ha evidentemente ancora a che fare con la funzione imitativa dell’arte, ma in un senso diciamo più spicciolo. Tutto inizia dalla tradizione della ripetizione delle immagini sacre, che si è poi trasformata in quella della “copia” delle foto dei cari, dei ritratti di famiglia, che trovate ancora oggi nelle case della borghesia italiana. Certo, quest’ultima pratica non è solo italiana, la troviamo più o meno ovunque tra Europa e USA, ma qui da noi ha pesantemente condizionato la pittura più propriamente di ricerca. Molti pittori negli ultimi decenni hanno infatti lavorato “copiando” immagini fotografiche di varia provenienza, senza nessun approccio problematico alla realtà che vi era contenuta limitandosi ad attendere dalla manualità un’aggiunta di senso alla rappresentazione. Com’è ovvio a giustificazione di questa pratica si è quasi sempre cercato un riferimento illustre, per la verità quasi mai pertinente. Il caso più frequente è stato il richiamo all’opera di Gerhard Richter, che sulle immagini ha senza dubbio lavorato, inserendole però in una complessità pittorica ed esperienziale così ampia, da costruire una mappatura della realtà tale da renderne possibile un percorso di conoscenza del tutto inedito.

Ma oltre che sulla ripetizione delle immagini, la pratica della “copia” nella pittura nazionale ha trovato facile continuità nella reiterazione delle tendenze presenti sulla scena internazionale. Così si è passati dalla stagione della pittura ispirata ai fumetti all’inizio dei Novanta alla Bad Painting, dall’Astrazione Neo-Geo fino alla Scuola di Lipsia. L’ultimo caso ora in auge è quello del Lowbrow/Pop Surrealism proveniente dalla west coast americana. Una minestra grafico-fumettisco-streetartistica-pittorica davvero difficile da digerire, figlia di quella cultura lisergica californiana, che naturalmente ha le sue fascinazioni (non solo culturali), che se i nostri “copisti” condissero con un pizzico di Realismo Magico nostrano, forse riuscirebbero a rendere più convincente. Forse.

Ma per tornare a noi, quello che volevo sottolineare è come la pratica della “copia” abbia fortemente condizionato buona parte della pittura italiana, di cui ha occupato una posizione maggioritaria, portandola su posizioni molto differenti da quelle che si sono sviluppate negli altri Paesi europei, come ad esempio in Germania, Belgio e Inghilterra. Ed è proprio tale prevalenza che ha reso molto difficile negli ultimi due decenni definire una specificità italiana, se preferite un carattere, al pari di quello che succedeva alle corrispettive situazioni, dalla Cina alla Polonia, come dal Canada alla Romania.

Quei pochi pittori che nella prima metà degli anni Novanta in Italia avevano lavorato su registri differenti, come ad esempio Alessandro Pessoli (1963), Margherita Manzelli (1968), ma anche il Marco Cingolani (1961) delle “Interviste”, proprio per la mancanza di una realtà più ampia nella quale trovare collocazione e continuità, non erano riusciti ad indurre una riflessione teorico-critica efficace ed identificativa di una qualche idea generale di pittura italiana. La situazione è almeno in parte cambiata man mano che si arrivava al nuovo millennio, fino ad un oggi in cui proprio la quantità degli artisti che si sono smarcati consapevolmente da quella pratica popular, ha portato ad un deciso mutamento della scena. Maria Morganti (1965), Luca Bertolo (1968), Andrea Salvino (1969), Lorenza Boisi (1972), Pierpaolo Campanini (1964), Angelo Mosca (1961), Marco Neri (1968), Gioacchino Pontrelli (1966), Domenico Piccolo (1961), Federico Pietrella (1973), Manuele Cerutti (1976), Flavio De Marco (1975), Paola Angelini (1983) Alessandro Roma (1977), Michele Tocca (1983), Ivan Malerba (1972), Pesce Khete (1980), Caterina Silva (1983), Laura Pugno (1975), Marco Salvetti (1983), testimoniano attraverso la propria pittura una felice e disinvolta capacità sincronica con il proprio spazio-tempo. C’è anche da dire, e aggiungerei che la cosa non è per nulla casuale, che molti dei citati si sono formati o vivono stabilmente all’estero, mentre altri vi trascorrono periodi più o meno lunghi. Il rapporto decisamente più laico che si intrattiene con la pittura fuori dai nostri confini nazionali, ha evidentemente avuto un effetto positivo sulla pittura italiana. Ma cerchiamo di definire meglio qual è l’elemento che ci fa distinguere il lavoro dei pittori in elenco – che naturalmente non vuole e non può essere esaustivo, dato anche il carattere in progress del nostro stesso riflettere – da quello che in generale fa riferimento all’idea e alla pratica della “copia”.

Dobbiamo a questo punto fare un bel passo indietro, e tornare a quelli che sono gli inizi leggendari della pittura, quelle origini a cui oggi richiamarsi appare non solo difficile, ma causa certa di asincronie esiziali con lo spazio-tempo in cui si è. Anche se dobbiamo al contempo dire che si tratta di una negazione a riferimenti che rimangono paradossalmente contenuti nel corpus stesso della pittura. Quegli elementi com’è noto sono il riflesso e l’ombra. Entrambi provengono dall’inesauribile serbatoio del mito, e nel caso fanno rispettivamente riferimento a quello di Narciso e a quello della Caverna, che in altri termini sono definibili attraverso lo specchio e l’ombra, o la linea. Quest’ultima è infatti ricavata come segno e rappresentazione dal contorno dell’ombra di una figura proiettata sul muro o per terra.

Leonardo da Vinci definisce lo specchio maestro del pittore, mentre l’ombra, e la conseguente linea, genitrice della pittura stessa (“Codice C”, pubblicato in Italia da Abscondita editore). In ogni caso e per modi differenti, lo specchio e l’ombra costringono – o per converso ne sono conseguenza – l’idea della pittura a quella funzione imitativa, cui abbiamo fatto riferimento. Ma di più, destinano alla pittura la funzione di fissare in modo permanente l’immagine riflessa, rendendola così emblematica. Perché altrimenti quale sarebbe la differenza tra il quadro e uno specchio, tra un disegno e il segno dell’ombra? Non è casuale a questo proposito che proprio il ritratto sia stato considerato da molti e per molti secoli il principio della pittura. Nel ritratto la pittura cerca e trova il senso del superamento stesso dell’immagine riflessa e del segno inespressivo dell’ombra, assumendo su di sé la capacità di contenere non solo l’immagine del volto, ma anche tutta la sua storia, l’idea espressa dalla vita dell’uomo ritratto. Sulla centralità del ritratto trovate una considerevole e interessante letteratura, alla quale volentieri vi rimando. Quello su cui m’interessa qui ragionare meglio è la questione dell’emblematicità e nello specifico della sua totale assenza nell’opera dei nostri pittori, così come in quella dei più interessanti europei e internazionali. Ciò che posso affermare, come elemento distintivo dei citati in elenco, e che stabilisce una prima essenziale comunanza, è l’evidente consapevolezza di non potere né di volere perseguire la realizzazione di un’immagine che sia in qualche modo emblematica e che di conseguenza trovi totalità di senso nel perimetro del singolo quadro. A conferma anche pratica di ciò, capita infatti, con una certa sintomatica frequenza in uno studio visit da un pittore che lavora in questi termini, di essere sottoposti all’esperienza dello scorrimento rapido, tipo foto su Ipad, ma in forma fisica, reale. Difficilmente vi sarà richiesto di concentrarvi su un singolo quadro o su una singola carta, disegno o idea abbozzata. Siete lì che assistete ad un carousel senza soluzione di continuità di tracce, segni e colori, quasi a sperdimento.

Il quadro, ma meglio dire la pittura è infatti concepita come frammento non iconografico ma propriamente esperienziale. Non è cioè testimonianza di alcun univoco ancorché parziale riflesso, né cerca di seguire i contorni di qualsiasi specificata ombra, ma risponde agli impulsi del nostro tempo restituendo un vero e proprio oggetto, una concrezione di elementi diversi. Una materia formata dal distillarsi di input visivi digitali e multimediali, ma anche da costituenti reali determinati dalle condizioni dello spazio fisico in cui si è, e quindi sotto l’influenza ad esempio di una particolare luce naturale o artificiale, o di uno specifico stato fisico nel quale si sta lavorando. Il movimento della mano, ma anche quello del corpo, il colpo d’occhio sulle icone insieme a quello sulla densità del colore, e via così. Proprio grazie a questa capacità di coniugazione, che riporta sullo stesso piano tutti gli elementi che concorrono nel nostro quotidiano a definire il nostro ambiente e noi stessi in esso, la pittura trova quella sincronia con il proprio tempo senza l’ausilio di dirette con-nessioni visive o di con-presenze oggettuali.

Quello che la pittura crea è dunque una condizione di particolare reciprocità tra autore e fruitore, basata sulla riconoscibile condivisione di elementi immaginativi e materiali. Naturalmente tutto ciò spiega almeno in parte anche i diversi caratteri delle pitture che si sviluppano nelle varie aree geografiche. Dal momento che la pittura coniuga una serie di fattori riferibili alla natura del proprio corpus con l’ambiente visivo-digitale e con quello visivo-fisico-reale, il risultato ne è chiaramente condizionato. Questo aiuta anche a spiegare perché un pittore italiano, uno tedesco, uno inglese, uno belga e così via, corrispondono con diverse forme, colori e luci, all’ambiente reale in cui si muovono.

Ma qual è dunque l’attuale specificità italiana? A questa domanda che ogni tanto qualche temerario pone a se stesso e agli altri, non è poi così difficile rispondere. Naturalmente non lo è, se si ragiona in termini di una pittura intesa come processo esperienziale, senza quindi fare riferimento a iconografie più o meno ricorrenti, né a luoghi comuni come ad esempio quello che vede nell’ironia, per non dire nella comicità, la nostra (italiana) qualità migliore. Diversamente, la pittura italiana in questi anni sta elaborando e mostrando un’esperienza che ha a che fare con il circostante, non solo come soggetto, ma proprio come spazio-tempo in cui si è. Uno stare dentro il proprio mondo, che è poi messa in comune del mondo stesso, condivisione e conoscenza. Anche per via di questo la pittura si muove sempre più in una destrutturata dimensione linguistica tra quei due campi un tempo avversi, quello dell’astrazione e quello della figurazione, oggi felicemente pacificati. Quello che si pretende come risultato non è infatti la rappresentazione come fatto compiuto, ma il continuo sviluppo narrativo che accompagna il procedere momento dopo momento, spazio dopo spazio. Una pittura dunque che è molto differente da quella che si pensava come evento magico e misterioso, immancabilmente siglata dall’aggettivazione “epifanica”, che ha continuato per decenni ad avvelenare la sorgente remota della pittura italiana.

*per la prima parte de “La possibilità della pittura”, pubblicata il 10/12/2012 cliccare qui

*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 82. Te l’eri perso? Abbonati!

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