24 aprile 2012

L’intervista/Regina José Galindo Io sono voi

 
L'artista guatemalteca spiega le sue perfomance che spesso suscitano orrore e disgusto. Ma è tutto fuorché un lavoro “a caldo”. Si tratta invece di una metodologia molto severa, dove ogni gesto ed emozione sono sotto controllo. Altrimenti non sarei un'artista, dice lei. Che continua a guardare al suo martoriato Paese, alla poesia da cui è iniziato tutto e ad alcune grandi performer sudamericane come Anna Mendieta

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Considerata una delle voci più sovversive dell’arte contemporanea, Regina José Galindo (nata a Guatemala City, dove vive, nel 1974), Leone d’Oro alla 51. Biennale di Venezia (2005) come miglior giovane artista, è a Ferrara per l’inaugurazione di Violence – L’arte interpreta la violenza (a cura di Lola Bonora e Silvia Cirelli), XV edizione della Biennale Donna (fino al 10 giugno). Seduta a terra, sul parquet scuro del primo piano del Padiglione di Arte Contemporanea, con le gambe incrociate, ha tutta l’aria di una collegiale. I capelli tirati, raccolti nella coda, scuri come gli occhi e la montatura rettangolare degli occhiali. Questa sua aria apparentemente spensierata viene puntualmente ribaltata dalle fotografie alle pareti. In una (senza volto) è incatenata, nell’altra è nuda e racchiusa nella posizione fetale dentro una busta di plastica trasparente, circondata dai rifiuti di una discarica. Opere come Peso (2006), No perdemos nada con nacer (2000) o El dolor en un pañuelo (1999), la proiezione sul suo corpo nudo e bendato delle pagine dei quotidiani guatemaltechi che riportano titoli inequivocabili, tra gli altri: “Víctimas del sexo”, “Lapidan a mujer”, “Treinta violaciones en sòlo dos menses”, sono tappe di un percorso che è artistico, ma anche di denuncia sociale. La voce di Galindo è pacata e il suo sguardo luminoso si fa serio quando si parla di lavoro. Ma ci tiene comunque a sottolineare che lei è un’artista, non un’attivista.

Alla fine degli anni Novanta approdi alle arti visive partendo dalla scrittura. Da bambina tenevi dei diari, poi sei passata alla poesia (Personal e intransmisible è la raccolta pubblicata nel 2000). Una delle tue prime performance è proprio Lo voy a gritar al viento (1999), in cui lasciavi che il vento portasse via la tua voce mentre, appesa all’arco del National Post Office di Guatemala City, leggevi le tue poesie scritte a mano su fogli di carta che lasciavi cadere giù. Cosa ti ha spinto ad avventurarti nel mondo dell’arte senza avere alcuna formazione specifica?

«Anche se non ho studiato arte, penso che scrivere poesie sia un atto creativo, precedente al fare arte. Non vengo dal nulla e quando scrivevo poesie, ho sempre avuto delle immagini visive in mente. Ho un grande rispetto per gli scrittori e poeti del mio Paese, ce ne sono tanti di talento, come Miguel Angel Asturias, premio Nobel per la Letteratura, e sono in contatto con autori del nostro tempo, parlo con loro delle mie idee, di come esprimermi e di quello che succede in Guatemala. Quando ho pubblicato il mio primo libro di poesie il soggetto era sempre il mio corpo, in relazione alla storia del mio Paese che è molto “machista”. Non è stato così difficile cambiare il modo di esprimermi – la metodologia – dalle parole all’azione. Forse è come se le parole non mi bastassero. E sono passata ad altro forse anche perché scrivere una poesia è molto lungo e richiede tanto tempo in solitudine. Volevo di più, avevo degli amici con una maggiore esperienza con l’arte contemporanea e mi sono confrontata con loro, che mi hanno dato delle informazioni. Poi ho sentito che era scattato un clic nella mia vita».

“Il Guatemala è un Paese senza memoria” hai affermato quando hai realizzato ¿Quien Puede Borrar las Huellas? (2003). In quel caso le orme di sangue lasciate dai tuoi piedi erano uno strumento per denunciare i diritti umani violati, le centinaia di migliaia di civili uccisi durante la dittatura militare. In altri lavori parli di razzismo, di violenza declinata in vari modi. Cosa è cambiato da allora nel tuo Paese? Nutri fiducia per il futuro?

«La situazione in Guatemala è veramente triste. Oggi abbiamo un nuovo presidente che è un ex militare eletto democraticamente dal popolo. Trovo che sia tristissimo che, dopo tutto il dolore e la sofferenza, la gente si avviti in circoli su circoli, come un cane che si morde la coda. Nel mio non si accetta l’idea che ci sia stato un genocidio, donne e bambini uccisi, diritti umani negati, con la complicità degli Stati Uniti che non fa che creare problemi. Una storia senza fine. E se la realtà non viene accettata, non si può cambiare nulla. Questo è il momento peggiore per il Guatemala, perché c’è una violenza superiore che in passato e la cosa terribile è che il Paese non è in guerra. C’è ancora chi crede che gli indios siano terroristi, comunisti e narcotrafficanti. Ma d’altra parte la gente è fiduciosa, crede che un giorno la realtà possa cambiare».

Il tuo corpo è allo stesso tempo entità anatomica e simbolo – specchio di dinamiche sociali contraddittorie, così come ci insegnano Gina Pane o Marina Abramović. Ti senti l’erede di queste grandi artiste o hai altri mentori?

«È molto pretenzioso dire che sono la loro erede, artiste di cui conosco e rispetto il lavoro. Il mio stesso lavoro, ad esempio Perra, è fortemente influenzato dal loro, soprattutto da quello di Marina Abramović che, però, contestualizzo. Sinceramente mi sento più vicina ad artisti latinoamericani come Ana Mendieta o il colombiano Rosenberg Sandoval».

Realtà e messinscena si mescolano nelle tue performance. Si tratta di storie vere accadute prevalentemente in Guatemala, ma che hanno un carattere universale. Violenze di cui sono vittime le donne, la popolazione civile, accanto a pressioni psicologiche più subdole, come l’idea di una bellezza perfetta e immortale o la ricostruzione di una verginità.

«La parola denuncia mi sembra sempre un po’ confusa, perché nel mio caso parlo di storie reali che sono alla portata di tutti. Quello che mi interessa è presentare questa realtà da diversi punti di vista, incluso il mio che è formale-estetico, perché possa aprirsi a nuove prospettive».

In questo dialogo serrato, talvolta straziante e anche un po’ masochistico, come in Piel (2001), Perra (2005), Golpes (2005), Camicia di forza (2006), solo per citarne alcuni, quanto è importante il coinvolgimento del pubblico? È come se attraverso il dolore acquisissi potere sull’osservatore che spesso è disorientato, ribaltando così i ruoli vittima/carnefice?

«Non c’è niente di morboso nel mio lavoro. Non c’è masochismo, perché non ho certo intenzione di ottenere il piacere dell’altro dal mio dolore, né che io stessa provi dolore. È semplicemente il mio lavoro. Cerco l’empatia nel pubblico, un’emozione umana. Se non c’è coinvolgimento allora la mia opera non funziona».

Che sentimenti provi quando vivi azioni al limite, hai paura? Penso a quando nella tua città – nelle mani di un chirurgo scaltro – ti sei sottoposta alla ricostruzione dell’imene (Himenoplastia, 2004) che, insieme all’aborto, pare sia una delle pratiche più diffuse in Guatemala.

«Non mi interessa che si parli di quello che provo personalmente, che sia paura, tristezza o dolore. Sono umana e come tale provo quei sentimenti, ma per me si tratta di lavoro. Preferisco che si parli della soddisfazione di riuscire a fare quello che ho in mente. Quanto alla tristezza e ad altre emozioni che provo, preferisco dividerle con mio marito. I panni sporchi si lavano in casa!».

Segui una determinata metodologia di lavoro per ogni progetto o c’è spazio anche per l’imprevisto?

«La metodologia, la preparazione sono molto importanti per me, come la produzione, il controllo, prevedere quello che può andare in maniera diversa da come si è progettato. L’improvvisazione non fa parte del mio lavoro. Se so che c’è un qualche pericolo, allora mi organizzo per poter intervenire. Quando ho fatto l’intervento di imenoplastica c’era con me un medico, qualora mi fossi sentita male. L’imprevisto o l’improvvisazione potrebbero causare un incidente che potrebbe distruggere il mio lavoro. Credo che il processo di scrivere poesie mi aiuti, perché mi interessa la sintesi dell’idea. Esattamente come sono ossessionata nelle mie poesie dalla riduzione delle parole al minimo, faccio lo stesso con l’arte visuale. Ecco perché l’improvvisazione non solo non mi piace, ma mi spaventa. Nel tempo, lavorando, ho imparato ad avere maggiore controllo sul mio corpo e a conoscere di più la reazione del pubblico. Ci sono elementi che in una performance si possono controllare, esattamente come un pittore o uno scultore maneggiano i loro materiali, io lo faccio con il mio corpo e le mie emozioni. Se questo controllo non ci fosse, allora il mio lavoro non avrebbe senso».

Vedendo El dolor en un pañuelo, in cui usi il tuo corpo nudo per proiettare notizie di cronaca, in cui si parla di violenza sulle donne, mi è venuto in mente Intellettuale (1975) di Fabio Mauri, installazione in cui veniva proiettato sul corpo di Pasolini il suo film Il Vangelo secondo Matteo.

«Quando ho fatto la mia performance non conoscevo quest’opera. Ma, come dicevo anche prima, il mio lavoro è sempre contestualizzato con il momento e il luogo in cui lo sto realizzando. Conosco altri lavori in cui vengono proiettate immagini sul corpo, ogni artista ha le proprie referenze».

Nel tuo lavoro il video e la fotografia documentano le performance. Ritieni che ci sia coerenza nel portare avanti tematiche di denuncia sociale e avere un mercato nel mondo dell’arte?

«Non trovo che ci sia incoerenza perché sono artista, non attivista. Solo che sono un’artista con una coscienza politica. Fin dall’inizio ho scelto la performance, una forma d’arte effimera, e l’unico modo che avevo per sopravvivere era di conservare l’oggetto economico che è la documentazione. Se non c’è documento, non c’è opera».

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