02 luglio 2012

Quando l’artista gioca con il linguaggio

 
La mostra al CIAC di Foligno è un'occasione per tornare su Vincenzo Agnetti, figura poliedrica che dall'Arte Concettuale sconfina nella poesia, nella letteratura e nella critica. E uno dei primi e isolati artisti a lavorare sui paradossi linguistici. Ma non solo: da 'Proto-permutabile. Riflessi di colore' a 'Photo-graffia' e 'l'Arte no' emerge il suo percorso per assiomi originale e profondo

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È ancora in parte da esplorare la figura di Vincenzo Agnetti (Milano 1926-1981), straordinario poeta e artista. A partire dagli inediti, soprattutto l’intensa corrispondenza con gli amici Piero Manzoni e Enrico Castellani, con i quali nel 1959 aveva dato vita alla rivista “Azimuth” e con l’editore Scheiwiller, con cui pubblica il romanzo Obsoleto (1968). Importanti tasselli da cui emerge la vivacità del clima culturale della Milano anni Sessanta.

Nel frattempo, dopo la retrospettiva del MART del 2008, l’antologica del CIAC – Centro Italiano d’Arte Contemporanea di Foligno, Vincenzo Agnetti. L’OperAzione Concettuale (fino al 9 settembre), curata da Bruno Corà e Italo Tomassoni, rende omaggio alla sua figura di artista, proponendo una rassegna antologica che, con le sue oltre cinquanta opere, si pone come ideale proseguimento di quella newyorkese del 1991, nella galleria di Salvatore Ala.

Anche allora era curatore Corà. I due si erano conosciuti nel 1970, in occasione della mostra Vitalità del negativo organizzata a Roma dagli Incontri Internazionali d’Arte, di cui il critico romano è tra i fondatori, insieme a Graziella Lonardi Buontempo e Achille Bonito Oliva.

«Agli Incontri avevamo predisposto delle conferenze con Agnetti. Lui parlava da solo, senza mediazioni: il pubblico ascoltava. Poi, alla fine, diceva ‘questo non è un discorso, questa è un’opera’. Naturalmente non ignorava Ian Wilson, ma quella era la sua versione del problema», ricorda Corà. «Mi aveva impressionato molto la sua forte tensione emotiva e l’etica radicale. Ho riconosciuto questa sua autenticità irrefrenabile e anche il sentimento che per lui c’era poco tempo per realizzare opere, perché nella prima parte della sua vita si era rifiutato di farlo. Tutto questo modo di astenersi dal compiere un lavoro sulla forma – la realizzazione dell’oggetto e dell’opera – l’aveva chiamato ‘Arte no’. Però, non ha rinunciato mai ad essere presente nell’ambiente artistico, attraverso altri sistemi, come gli scritti proposizionali dovuti anche al rapporto con i suoi amici Manzoni e Castellani, ma anche Melotti, Calderara, Mulas, Colombo, Scheggi, Parmiggiani. Agnetti è molto radicale ed esemplare, semplice e lineare nelle sue esagerazioni linguistiche e nei paradossi. È un poeta. Credo che, in Italia, abbiamo due figure sulle quali bisogna tornare a riflettere, come poeti ma anche come artisti. Uno è Emilio Villa, l’altro Vincenzo Agnetti. Entrambi hanno dato dei segnali molto rigorosi, originali, intensi», conclude Corà.

New York fu per l’Agnetti pre-artista un luogo di confronti e conferme quando nel ’67, sulla via del ritorno a Milano (aveva lavorato per cinque anni in Argentina nel campo dell’automazione elettronica), entrò in contatto con gli artisti concettuali americani.

«Come non si può da questo momento in poi separare la vita di Agnetti dalla sua produzione artistica, così è artificioso distinguere tra un Agnetti scrittore, un Agnetti pittore, un Agnetti scultore, un Agnetti critico», scrive la figlia Germana nel catalogo della mostra. È un magma di esperienze, elaborate in maniera singolare – con modalità, tecniche, materiali diversi – che danno vita a progetti ciclici, tra cui: le macchine, i permutabili, i feltri, gli assiomi, i villaggi, le photo-graffie.

Un percorso attraversato costantemente dall’ironia e da una certa vena di giocosità, come appare evidente dalla Macchina drogata (1968), una calcolatrice Olivetti Divisumma 14, in cui i numeri sono stati sostituiti dalle lettere, che ricompongono parole inaspettatamente prive di significato, buffe, assurde o perfettamente riconoscibili.

La critica di Agnetti sul linguaggio è dichiarata nel titolo stesso di Oltre il linguaggio del 1969 e prosegue con opere più o meno accessibili: Libro dimenticato a memoria e Apocalisse, entrambi del 1970 – in cui le lettere dell’alfabeto incise sui fogli di plexiglass, sovrapposti l’uno all’altro, danno vita ad una sorte di Babele – Autotelefonata (yes) del 1972, per spostarsi in territori più complessi come Tempo azione (1972), Surplace. Quattro titoli (1979-80), fino ad arrivare all’opera rimasta incompiuta Lucernario, a cui l’artista stava lavorando quando un’emorragia cerebrale lo porta via il 1° settembre 1981.

«Si divertiva molto a mettere in scacco il linguaggio, portandolo quasi al collasso”, continua Corà. Lo fa quando afferma ad esempio ‘ieri ho visto un amico che mi ha spiegato che domani era andato a casa su’. Lo fa per una maggiore ampiezza della mente, per raggiungere una sorta di ebbrezza del pensiero, del linguaggio stesso che stira, provoca in una maniera talmente stressante che, alla fine, fa cortocircuito e la comunicazione s’inceppa. Apre la via del paradosso, che non mi risulta sia stata seguita ancora da nessun altro».

Ma con un tratto profondamente originale, spiega Italo Tomassoni: «Agnetti punta a una verifica dei flussi che si irradiano dall’oggetto arte. Dal presupposto che le contraddizioni sono un ‘parametro stimolante’ e la tautologia ‘un parametro convincente’, diversamente dagli artisti concettuali degli anni Settanta che da On Kawara a Joseph Kosuth fino ai logici di Art and Language puntavano sulla centralità dell’idea, lui si preoccupa di rendere possibile un equilibrio tra supporto e superficie, lingua e parola, sincronia e diacronia, dimenticanza e scoperta».

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